• Fuori dalle mura di casa. Emma Dante racconta il tempo fluttuante del presente

    Una fila di cappotti scuri distesi ben piegati a filo del proscenio del teatro. E tutt’intorno il buio compatto che rende invisibili i confini della scena vuota, avvolta dalle quinte nere, da cui tutto ha inizio e fine. Le storie, i personaggi che la riempiono. Tutte le volte che Emma Dante pone un oggetto a marcare quel limite della scena che non è possibile oltrepassare, una linea d’ombra che separa chi sta di qua da quel luogo di fantasmi che sempre è lo sconfinato palcoscenico, dove i morti e i vivi possono convivere e vai a sapere in realtà chi è vivo e chi è morto, sappiamo che quell’oggetto avrà presto un ruolo nell’azione che ci ha allestito la regista palermitana.

    Eccoli infatti i numerosi interpreti, in fila lungo quel confine. Infagottati in abiti molto colorati, indossati l’uno sopra l’altro. Sembrano addormentati ma sulle note incalzanti di Bella ciao hanno un sussulto. Una mattina mi sono svegliato… Già, per trovare che cosa? Si spogliano freneticamente di quei panni e li gettano giù dal palco, in platea. Sotto compaiono i loro abiti quotidiani, che poi a teatro sono i costumi che li rendono personaggi. Fissati nella staticità dei loro ruoli, come una divisa d’ordinanza. Il ferroviere, il militare, la giovane donna con il velo islamico, il ragazzo immigrato dal Congo… 

    Extra moenia si intitola questo nuovo lavoro (visto allo Storchi di Modena, dopo il debutto a fine novembre al teatro Biondo che ne è anche il produttore). Fuori dalle mura di casa o della città, in un luogo pubblico, condiviso. Ma anche fuori dall’istituzionale luogo di lavoro. E chissà che non sia questo più segreto, meno scontato significato quello che più avvicina lo spettacolo. Un lavoro privato, insomma. Nato anni fa da un laboratorio e dunque dal respiro corale, ripreso ora con la sua compagnia Sud Costa Occidentale, in un momento di transizione personale oltre che creativo. Ha annunciato che a primavera lascerà la capitale siciliana, Emma Dante. Si trasferirà a Roma. E intanto però si circonda di un gruppo che è un po’ come una famiglia. Ci sono Giuditta, la figlia di Michele Perriera, e Italia Carroccio che c’era già in Mpalermu, se non ricordo male, e certo era una delle indimenticabili Sorelle Macaluso. E può anche ironizzare su quella lingua materna che riemerge nel battibecco per strada ma pronunciata tanto velocemente da diventare una sorta di gramelot – ma tu la capisci quando parla?

     

    Foto di Rosellina Garbo

    Danzano, danzano i numerosi interpreti. Le azioni nascono l’una dall’altra, in una sorta di moto ondoso o di flusso di coscienza, quasi chiamate l’una dall’altra. Il ferroviere moltiplica surreali annunci su ritardi e partenze. Una donna ucraina racconta la sua fuga dalla guerra per finire a prostituirsi in minigonna qui da noi. La donna dal velo islamico si spoglia dei vestiti e resta in mutande come la studentessa iraniana arrestata all’università di Teheran. Due innamorati replicano l’eterno vorrei e non vorrei, fra le insistenze amorose di lui e i dubbi di lei che non vuole diventare una cosa fra le sue mani ma alla fine volteggia nel desiderato abito bianco. Il militare inneggia alla guerra che è bella, è più spettacolare della pace, è la salute dello stato e l’origine della civiltà – anche se fa male, cantava il Generale di De Gregori, purtroppo la guerra non è finita come nella canzone. I soldati in divisa si muovono come marionette di Kantor ma poi si abbandonano a uno stupro di gruppo, d’altra parte lei va in giro con quel provocante abito rosso persino un po’ attillato. Alla fine, se fine può esserci, la vittima si ritrova al centro del palco circondata da altre donne che le ricuciono addosso l’abito strappato, le truccano il viso, le mettono una collana, per partecipare a un matrimonio di una volta. Ed è forse il momento più intenso della serata insieme a quei panni colorati che calano dall’alto appesi in file ordinate, funerei e festosi reperti nell’armadio della memoria.

     

    Foto di Rosellina Garbo

    Danza, danza, altrimenti sei perduto, diceva Pina Bausch. E la danza ci porta avanti e indietro nel tempo, fra le immagini di un presente già remoto dove tutto diventa intrattenimento, la guerra, gli stupri, la violenza sull’immigrato mascherato da cavallo, e un passato che nella memoria appare molto più prossimo di quanto potevamo immaginare. Tempi fluttuanti, che si sovrappongono l’uno all’altro in Extra moenia ed è forse ciò che chiamiamo memoria questo tempo da rivivere. Ecco anche due calciatori che vestono la maglia rosanero, con i nomi sulla schiena di due attaccanti della prima stagione di Zamparini a Palermo; ma forse quella che giocano è la partita per strada della loro infanzia, quando per un pallone si poteva piangere, sono passati appena vent’anni. Sembra un secolo.

     

    Si finisce a fare naufragio in un mare di bottiglie di plastica, tutti insieme, a tenerli a galla ci sono le ciambelle, i salvagenti dei primi bagni a mare. Quel tempo è finito. E si sa che il far naufragio può essere anche l’esito di aver ben navigato.

     

    © Gianni Manzella

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