Con ammirevole coerenza e altrettanta innocente curiosità Constanza Macras continua a raccontare il suo muoversi “nelle città”, l’esplorazione di quell’altrove che provvisoriamente può identificarsi nel luogo in cui da tempo vive l’artista argentina, come diceva il bellissimo Berlin Elsewhere di qualche tempo fa, con i suoi quartieri di immigrati speculari alle megalopoli di un mondo anonimo e globalizzato, giacché globalizzato è divenuto l’immaginario. Comune è la patologia che attraversa questo universo urbano. Il rischio, qui e dopo, di diventare un paese di mostri tranquilli.
In Here/after, lo spettacolo presentato al teatro Eliseo per Romaeuropa, la città sembra tagliata fuori, ridotta al mondo grigio e inanimato che appare su uno schermo in un crepuscolare panorama urbano. Tenuta a forza fuori dalla porta che campeggia al centro della scena, fragile barriera contro l’esterno e l’estraneo, contro ciò che è sconosciuto e per ciò stesso pericoloso. Nell’incubo ossessivamente ripetuto che a un certo punto sconquassa la scena, nel tentativo rimettere le cose al loro posto e il mondo sui suoi cardini, qualcuno bussa furiosamente urlando: apri questa fottuta porta.
È una patologia, questa paura del contatto con l’altro, che trova origine già nella perturbante immagine iniziale, l’avanzare lento di una donna che nei singulti della sua nudità indifesa richiama alla mente la dolorosa Eva di Masaccio, nell’affresco della Cappella Brancacci a Firenze. Cacciati dall’Eden, si vorrebbe fuggire anche dal mondo che gli sta fuori, cercando rifugio in un mondo a parte, qual è quello qui abitato da una coppia di donne. Un universo che stenteremmo anche a definire domestico, fulcrato com’è sul solo divano posto con un tavolino al centro di una pedana circolare volutamente sollevata dal palcoscenico, una giostra che ruota dando l’illusione di un movimento che lascia tutto dove sta. Si corre senza avanzare. Qui tutto può succedere, basta aprire il portatile. Si gioca a immaginare scenari futuri, a partire da un party o da un aperitivo – e sono labirinti di tempo che si aprono. Possibilità che si incatenano nel giardino dei sentieri che si biforcano. Let it be. Ma l’esito fantasticato è sempre opprimente. E basta a convincersi di non rischiare. A ciò che sta fuori meglio guardare attraverso una pagina di facebook. Fino alla tentazione di chattare da una stanza all’altra, perché è più facile che parlarsi. L’unico contatto fisico è con il metamorfico fattorino che passa a consegnare ora un grande pacco ora una pizza, oggetto alla lunga anche di fantasie sessuali che ovviamente non portano a nulla.
Un altro polo visivo occupa il lato opposto della scena. Una grande vetrata inquadra un altro interno domestico con divano e orsacchiotto di complemento. Ed è allora una finestra sul cortile, da cui spiare la vita degli altri. Forse un’altra solitudine che si agita in mezzo a troppe piante, invasa a volte da un chiassoso musicista dalle innegabili doti acrobatiche. Una giovane orientale intenta soprattutto a conversare via skype nella sua lingua. Sono solo questi, quattro performer e il musicista, gli interpreti di Here/after, quasi che il farsi più intimo del tema porti a una necessaria riduzione delle presenze, come già avveniva in No wonder, laddove non per caso la coreografa aveva voluto tornare in scena in prima persona, con la connazionale Lisi Estaras, per fare i conti con i fantasmi del suo paese.
Mancano allo spettacolo le folate corali di altri lavori, il moltiplicarsi dei volti e dei caratteri. Tutto è insieme più scarno e più slabbrato. Le variazioni ritmiche e sonore non fanno sconti al tempo che ci inchioda. Ma ciò non vuol dire una assenza di vitalità. Anzi la compressione porta inevitabilmente a scoppi di energia, allo svilupparsi di una delirante entropia. Si salta e si ricade, con fragore, fra una lambada d’epoca e l’esplodere vitalistico di Stayin’ alive. Il qui e il dopo del titolo si confrontano senza tregua con l’ironia che contraddistingue la coreografa. Ecco allora una domestica sfilata di biancheria intima, misurando con occhio critico se “too pink” o giustamente retro, per immaginarsi Sex bomb a dispetto dei corpi già un po’ sformati. O lo sfidarsi in una gara a mimare attrici cinematografiche, per l’insofferenza di quella che indovina sempre subito mentre l’altra non fa che dire Meryl Streep. A esorcizzare l’ombra incombente delle benzodiazepine. L’ombra di una mostruosa tranquillità.