Antonio Neiwiller moriva a Roma il 9 novembre 1993, a soli quarantacinque anni. Le Vie dei festival ricordano l’attore, a vent’anni dalla scomparsa, con una serata al Teatro Vascello (sabato 9 novembre, a partire dalle ore 18.30) durante la quale verrà fra l’altro proiettato il mediometraggio di Rossella Ragazzi L’altro sguardo, presentato a Venezia nel 1996, poetica testimonianza dell’ultimo spettacolo dell’attore.
Noi ricordiamo così
L’arte non indifferente di Antonio Neiwiller
“Bisogna essere molto forti per amare la solitudine”, scriveva Pasolini. La forza solitaria di Antonio Neiwiller era quella dell’artista in ascolto, che fa silenzio dentro di sé per trovare il senso etico della propria arte. Solitario ma non isolato, anzi mobile e leggero, disponibile al viaggio e all’incontro; “ che senso ha se solo tu ti salvi?” Di fronte all’appartarsi dell’artista sta la domanda di Majakovskij, cardine di una “trilogia della vita inquieta” che l’artista voleva dedicare alla forza inesauribile dell’utopia, al pensiero di un mondo possibile. Ma in Dritto all’inferno, la prima parte realizzata, il tema dell’utopia già si piegava di fronte al dolore del presente.
Non è, questa sua trilogia, l’unico dei progetti che la morte di Neiwiller ha lasciato incompiuto per sempre. E forse non l’avrebbe portato a termine comunque: l’incompiutezza era inscritta nel suo modo di lavorare fatto di percorsi pluriennali che attraversavano diverse tappe e con rare uscite pubbliche. Anteprime di spettacoli che non arrivavano a un vero debutto. Opere-installazioni con la fragilità di eventi unici. Spettacoli che portavano dentro altri spettacoli, che desideravano altre vite come gli eroi di Pessoa evocati da Una sola moltitudine. Sempre alla ricerca di un nuovo inizio, fra continuità e trasgressione, perché nuove idee premevano ma soprattutto perché il senso del teatro sta davvero nel suo farsi.
A questo processo Neiwiller dava il nome di laboratorio, parola disusata cui restava testardamente fedele. Nulla del resto gli era più estraneo delle mode artistiche, del volteggiare superficiale della postmodernità. Il suo era piuttosto un lavoro di scavo dentro un universo poetico ai confini del teatro, dentro la pittura e vicino alla musica, chiamando a testimoni artisti sentiti affini, da Paul Klee a Beuys. E la riflessione sul “fare artistico” si chiariva esemplarmente nel prologo a sipario chiuso della Natura non indifferente, là dove si alzava la voce dell’attore per dire (ancora con Pasolini) “il peso di questo mondo che esisteva già prima di me”, l’impossibilità di trasformare il mondo, la volontà e perfino la necessità di farne arte ma anche la convinzione che non “c’è più niente da recitare”.
In questo privilegiare una dimensione corale e raccolta, Neiwiller sembrava a volte tirarsi indietro come attore, negandosi cioè proprio nell’arma più penetrante del suo fare teatro, nel corpo e nella voce. Paradossalmente il lungo laboratorio sembrava allora sfociare in una dichiarazione di sfiducia nella possibilità della comunicazione artistica se non come inesausto lasciare le tracce di un passaggio. Ed era invece l’unica manifestazione possibile di un teatro “clandestino” che, su una strada sua propria, si rifaceva idealmente a un altro maestro anomalo e scontroso, Tadeusz Kantor.
Attore certo lo era. Lo era biologicamente, per così dire, per quella sua istintiva capacità di comunicare. Ma lo era anche diventato con il rigore di un lungo tirocinio, alimentato dalla tradizione napoletana, cui aveva opposto, per non esserne travolto, le ragioni delle avanguardie; alternando con i compagni di allora Viviani e Petito, le rivisitazioni cineteatrali di dadaismo e surrealismo. E se ne era reso conto immediatamente anche chi, lontano da Napoli, l’aveva conosciuto in ritardo, a metà degli anni ottanta, protagonista di un Desiderio preso per la coda sottratto da Mario Martone al destino originario di divertimento letterario e ribaltato nel clima cupo dei giorni in cui era stato scritto, durante l’occupazione nazista di Parigi.
Attore certo, ma non del genere mercenario che va per la maggiore sui nostri palcoscenici. Ben radicato al contrario in quella tradizione del nuovo che la generazione cresciuta negli anni settanta ancora sentiva profondamente, e che faceva dell’attore in scena l’autore della propria partitura. Ogni sua interpretazione diventava così una creazione, anche quando accettava di mettersi alla prova fuori dal cerchio del suo gruppo, come nell’incontro folgorante con Leo de Berardinis. Ecco allora la napoletanità ritrovata attraverso l’Eduardo di Ha da passà ’a nuttata, anche in femminili vesti materne; o il travolgente mariuolo di Totò Principe di Danimarca, pronto a trasformarsi in una copia proletaria e inoffensiva del re usurpatore dell’Amleto shakespeariano. O da ultimo lo straordinario mago Cotrone dei Giganti della montagna, che creava un perno di pacificante quiete interiore al centro del palcoscenico del mondo.
Ma poi l’attore tornava ogni volta alla trama più segreta del suo lavoro artistico, al suo sogno di un teatro visionario, capace di far coesistere poeticamente politica e mistero. Così era stato anche con L’altro sguardo, ancora il sogno di un viaggiatore inquieto che forse non si è mai allontanato dalla sua stanza, navigante dell’anima, fratello elettivo della moltitudine di Pessoa. Immerso nell’oscurità rotta soltanto dalla luce con cui l’attore si illuminava il viso, mentre avanzava strisciando contro il muro su cui si proiettava la sua ombra; e intanto diceva di un disadattamento, di una malattia del vivere riflessa nel male del nostro tempo, ma anche del bisogno di inventare nuove forme per comunicare.
Quando muoiono i poeti di una generazione, maestri coetanei, quella generazione farebbe bene a interrogarsi seriamente sul suo destino. “Se a qualcuno verrà in mente, un giorno, di fare la mappa di questo itinerario; di ripercorrere i luoghi, di esaminare le tracce, mi auguro che sarà solo per trovare un nuovo inizio”, scriveva Neiwiller, quasi un presagio del “dopo” che il suo legame ostinato con la vita non permetteva di colorare con toni funerei. Forse è venuto il giorno di fare questa mappa. Di esaminare errori e ambizioni sbagliate di una generazione. Di mettere in riga perdite e profitti. Di valutarne anche la generosità. Per conservare quel granello che, insegnava Stanislavskij, un’altra generazione farà crescere.
Il ricordo di Antonio che con più insistenza mi torna in mente, non appartiene alla scena, è quello di un incontro protratto intorno a un tavolo. L’attore aveva la voce ancora più roca del solito, quasi afona. Ma si ostinava a parlarmi, voleva spiegarmi, incurante della sua fatica a dire, della mia a comprenderlo. Ci sono voci che continuano a parlarci anche quando gli è stata tolta la parola. Alle quali continuiamo a parlare anche quando non ci sono più.