È un bell’affondo nella regia contemporanea quello che offre il festival di Spoleto, in mezzo al consueto brulicare di eventi che di questa stagione riempie la cittadina umbra. Con più precisione bisognerebbe parlare di un confronto ravvicinato con i maestri della regia contemporanea, trattandosi qui di Luca Ronconi e Peter Stein. E di una modalità di lavoro a cui non è vano dare ancora il nome di laboratorio, una delle più feconde eredità novecentesche. Non può essere un caso che Pornografia nasca dagli “esercizi per attori” che Ronconi tiene da un decennio nel suo centro teatrale Santa Cristina, nei pressi di Gubbio, e Il ritorno a casa per impulso di un manipolo di attori di quegli straordinari Demoni che pure avevamo visto non lontano da qui, nell’attrezzato buen ritiro del regista tedesco.
Fedele a una strategia di minorazione del testo drammatico, che non vuol dire ovviamente rinuncia alla parola ma consapevole decostruzione della metafisica della rappresentazione, Luca Ronconi torna a rivolgersi a un testo narrativo, il romanzo capolavoro di Gombrowicz. Che è qualcosa di più di un romanzo, dunque un passo di traverso, come la mossa del cavallo nel gioco degli scacchi, rispetto ad altre prove del regista (metti I fratelli Karamazov o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, o anche la sceneggiatura cinematografica di Lolita che pure qualche motivo di confronto lo offre). Pornografia (romanzo) è un meccanismo riluttante. Una derisoria apocalisse personale, un inabissamento nell’orrore di guardarsi allo specchio che cattura il lettore proprio in quanto sembra volerlo tenerlo ai margini, sulla soglia di un putativo voyeurismo.
L’ingombrante, certo un po’ ironica parola “pornografia” vi compare una sola volta, verso la fine del terzo capitolo. Per dire l’irritata esasperazione della voce narrante per quei due adolescenti che sembrano fatti per accoppiarsi e invece così indifferenti l’uno all’altra… E dunque si tratta all’apparenza di sperimentare un’azione parallela per metterli insieme loro malgrado, mettendo alla prova uno sguardo pornografico che poco ha a che fare con uno stato di eccitazione erotica.
Finzioni, si potrebbe dire con Borges. Se Gombrowicz dà al protagonista del romanzo il nome di Witold, oltre che il suo mestiere di scrittore, Ronconi presta le proprie fattezze a Riccardo Bini, in un mimetismo tanto perfetto quanto vagamente depistante. E naturalmente Witold c’est moi, potrebbero affermare l’uno e l’altro. Ma intanto c’è da fare i conti con quell’altro protagonista, o per meglio dire con l’alter ego del protagonista, che ha preso il nome italianizzato di Federico nella bella traduzione di Vera Verdiani. Che siano qualcosa di più di due un po’ casuali amici non vi è dubbio. Al secondo è intanto affidata la funzione di incarnare la vocazione teatrale che era anche di Gombrowicz (fu infatti anche grande autore teatrale, fra l’altro, non si sa bene perché oggi dimenticato, che meraviglia quella sua Operetta… in realtà tutta la scrittura del gran polacco tende alla performance).
Finzione è dunque il racconto di un’avventura vissuta in prima persona, negli anni della guerra in Polonia che Gombrowicz non visse, era emigrato per tempo in Argentina. Ma finzione sono anche quei personaggi che tali non sono, a cominciare dalle figurette che fanno da contorno ai due scatenati protagonisti, bravissimi Bini e Paolo Pierobon (che invece fa un po’ Kubrick), i quali a loro volta si dimenano, strisciano a terra, si abbracciano, rotolano sotto le sedie per rendere chiaro con quell’eccesso gestuale che di mimesi proprio non si parla. E finzione è la stiracchiata trama. Il tema del traditore, borgesiano anch’esso, che serve da pretesto all’uccisione rituale in cui finalmente si congiungono i due recalcitranti amanti, è il motore finale di un’azione che in realtà si svolge tutta nella dimensione onirica di una mente febbrile. E infatti lo spazio in cui il testo chiede di essere messo in scena, nel piccolo teatro del borgo di Bevagna arrampicato su una rocca, è una nuda scatola grigia, percorsa però avanti e indietro da arredi che sembrano dotati di vita propria. Sedie e poltrone allusive di uno sfuggente contesto borghese… divani contraffacciati a creare un affollato spazio collettivo… veicoli ferrosi usciti da un archeologico futuro alla Moebius… I paesaggi campestri sono quadri di una esposizione mobile anch’essa attraverso la scena, a riaffermare la negazione della dimensione drammatica.
Pornografia è a memoria il più artaudiano fra gli spettacoli di Ronconi. Forse destinato ad essere frainteso da quanti privilegiano la dimensione pacificante del teatro borghese. Vela nel divertimento a tratti irresistibile la sua crudeltà. Se dubbio potesse esserci, basta ripensare alla sanguinante nudità preraffaellita in cui si prolunga l’agonia della santa donna di chiesa turbata nell’attimo estremo dalla rivelazione di un mondo senza dio. Imbarazzante, memorabile.