Fa un po’ impressione, dopo tanti anni, non trovare il nome di Mariangela Gualtieri in locandina, nel nuovo spettacolo del Teatro Valdoca, Ora non hai più paura. Sono infatti passati trent’anni giusti da quando il gruppo guidato da Cesare Ronconi fece la sua silenziosa irruzione sulla scena con un rarefatto, bellissimo lavoro, Lo spazio della quiete, che poco concedeva alle mode del momento. Un fragile equilibrio teneva insieme i corpi delle due interpreti e la materia dei pochi oggetti che popolavano una scena di ricercata povertà. Elastici tesi dall’una all’altra attraverso lo spazio, sassi dondolanti appesi a funi che scendevano dall’alto secondo una alchemica geometria, esili canne di bambù da far vibrare lente che potevano ricordare le oscillanti sculture di Fausto Melotti. Era l’atto fondativo di una personalissima poetica che si sarebbe poi sviluppata in un costante confronto, quasi una battaglia, fra il segreto insondabile della bellezza e la materialità del mondo che lì, sulla scena, prendeva forma e vita.
Se li ricordiamo, quegli inizi, è perché qualcosa d’improvviso ce li ha ricordati in questa nuova creazione che certo deve fare i conti con un tempo mutato, con una diversa qualità dello sguardo o di ciò che allora si definiva immaginario. Il teatro della Valdoca ha sempre fuggito la cronaca, le facili interazioni sociali, e tuttavia il teatro inevitabilmente parla al presente. Sarà allora per quel tornare a un universo tutto femminile che contrassegnava le prime prove del gruppo di Cesena. Sarà lo spazio di nuovo vuoto, è evidente una rarefazione degli oggetti di scena, solo i proiettori luminosi stanno ben piantati a terra a sottrarre all’oscurità il panneggio azzurrato che da un lato si sovrappone alle quinte – ed è una soglia, laddove si apre un varco fra l’esposizione di sé e l’invisibilità del fuori scena in cui a tratti si rifugiano le tre giovani performer – sono Silvia Mai, Chiara Orefice e Sveva Scognamiglio. O sarà il loro trascorrere da un’apparente estraneità, da una distanza anche fisica verso la ricerca e la pratica di un rapporto sempre più intimo, che non ha bisogno di parole.
Un ritorno al silenzio, potremmo dire, se non fosse all’apparenza contraddetto dalle due grandi parabole che incombono dai tralicci alzati ai due lati del palcoscenico. Strumenti riceventi che dei suoni del mondo grande possono però restituirci solo il rumore di fondo. E infatti ci sono alle loro spalle, quasi invisibili, due musicisti che dialogano con suoni percussivi, ronzii elettrici, stridori di archetti che grattano contro superfici incongrue.
Ma l’emozione dello spettacolo è portata tutta da quei corpi femminili, ciò che chiamiamo gioia e dolore o bellezza, paura o desiderio, i loro confini incerti… ciò che da sempre è l’oggetto del teatro di Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi. Diverse per fisicità, oltre che per i colori con cui sembrano connotarsi. Una con una gonna rossa che può risalire sul volto, l’altra in maglietta e mutande bianche, la terza che entra rotolando in calzoni neri tenuti su dalle bretelle secondo l’immagine resa popolare da Charlotte Rampling in Portiere di notte. Si muovono con gesti lentissimi, che però si dilatano in spasmi o accelerazioni improvvise, come se ciascuna possedesse un proprio esclusivo codice gestuale, aereo e leggero o al contrario rivolto verso la terra, contorto in pose che si avvicinano al butoh. Una danza imperfetta, consapevole che nell’imperfezione sta il segreto della bellezza che possiamo amare. Un poco alla volta si cercano, si avvicinano, arrivano a stringersi in un passo a due. Si sollevano per aria, mimando pose acrobatiche. Una sensualità esplicita pur se mai provocatoriamente esibita traspare dalla loro giovinezza…
Paura, dice il grande pannello che campeggia al centro prima dell’inizio dello spettacolo in vece del sipario – le altre più rassicuranti parole che precedono nel titolo sono in caratteri piccoli e nascosti. E chissà a chi sono ambiguamente rivolte. Ma paura di cosa? Paura di dire, forse paura di mostrarsi, paura di essere nel mondo per modificarlo come il Caino del precedente spettacolo di Valdoca… Mancano a questo teatro affettivo, si diceva, le parole di Mariangela Gualtieri. Ma forse non è così. Forse quelle parole sono ormai così impresse nei corpi e nei gesti, nei colori e negli oggetti di scena, che per una volta si può lasciarle segrete, nello spazio dell’inquieto presente. Chi volesse parlare di questo tempo potrebbe soltanto balbettare, balbettare, ammoniva un altro poeta.