Ci sono, nella vita del teatro, momenti che paiono subito destinati a conservarsi nella memoria. Non c’è dubbio che sia così per il folgorante inizio delle Tre sorelle messe in scena da Massimo Castri al teatro Argentina. Solo un grande tavolo rotondo campeggia sull’acciottolato della scena, di fronte a un luminoso fondale. La vecchia serva va avanti e indietro apparecchiando. Quand’ecco arrivano lentamente i protagonisti del dramma che si va a rappresentare. Tutti vestiti con una simile mantella grigia. Tutti con una identica valigia in mano. Si guardano intorno, come cercando di capire in quale paese siano arrivati. Più che villeggianti cechoviani, una pattuglia spaziale che giunge su un pianeta deserto e trova un (mondo) morto. O la compagnia della Contessa piovuta nella villa ormai deserta del mago Cotrone. Qualcuno si siede sulla valigia, prende a leggere il giornale. Da sotto le mantelle spuntano fuori divise militari e lunghi abiti bianchi.
Quel che è in gioco, è chiaro, non è un puro fatto estetico, al di là del nitore essenziale della scena disegnata da Maurizio Balò, immutata per tutta la durata dello spettacolo. È che quel momento che subito cattura all’interno dello spettacolo ne marca anche il colore, la tonalità emotiva. E torna in mente, per contrasto, l’inizio giocoso delle Tre sorelle secondo Eimuntas Nekrosius. Se c’era più Mejerchol’d che Stanislavskij, nella messinscena del regista lituano, qui c’è aria di Pirandello, di un teatro che ha superato la soglia del naturalismo e si apre alle nuove esperienze della drammaturgia novecentesca.
Castri per chi lo conosce un po’ è artista dal temperamento ombroso, insofferente sulla scena e nella vita, profondamente pessimista. Tornando a Čechov, a distanza da un Gabbiano che si ritraeva progressivamente dentro le pareti del dramma borghese, sembra coglierne il lato più nero e disperato, privo di speranza proprio in quanto giocato sull’incapacità di vivere il presente, mano a mano che si mangia il futuro cui era affidata una speranza di cambiare la vita. E infatti presto non è più tempo di feste. Tutta la parte centrale dello spettacolo si svolge in una luce notturna. Sono passate solo poche stagioni ma già tutti i personaggi sentono che la gioventù se n’è andata. Con una attonita impotenza le sorelle assistono alla presa del potere domestico da parte della cognata Nataša, che da brava piccola borghese ha ben chiari i gradini della scala sociale e impara in fretta le regole della società, anche l’adulterio annoiato. Soltanto le valigie, rimaste attorno al tavolo, dicono ancora di un desiderio di essere altrove. Scompariranno da lì nel finale, per tornare in mano ai personaggi, non più comunità ma esuli nel paese di teatro.
Una considerazione a parte merita la giovane compagnia riunita intorno alla vecchia Barbara Valmorin, da Mauro Malinverno alle tre sorelle Bruna Rossi, Laura Pasetti e la sorprendente Alice Torrioni, e tutti gli altri. Capaci di restituire alle parole di Čechov l’ascolto che meritano.