A conclusione della diciottesima edizione del Festival Natura Dèi Teatri, intitolata al “Glorioso”, due settimane intense tra visioni del teatro, della performance, della musica, un magma di linguaggi eterogenei, un occhio a ventaglio sullo stato attuale dei linguaggi artistici, entro cui si situano l’impegno operativo e l’estetica di Lenz Rifrazioni e che sono punto di partenza per nuove progettualità, proponiamo una conversazione con Francesco Pititto.
Vorrei partire dal tuo lavoro sui testi, in particolare guardando a Hamlet e ai Promessi Sposi. Si tratta di due testualità – un testo teatrale e un romanzo – molto distanti, così come nella loro risonanza scenica – un solo e un’installazione corale. Come sono state frammentate e ricucite le testualità di partenza per approdare alla drammaturgia per la scena?
Per ogni autore la fase di avvicinamento, di conoscenza, di rapina è differente. Così come per ogni testo, ad esempio Hamlet è un testo poetico-teatrale, i Promessi Sposi è un romanzo storico-sociale, la Gloria è un comizio poetico-lirico-tragico a più voci. La conquista del testo originale attraverso la lettura, almeno per quanto riguarda il mio lavoro di dramaturg, avviene in diverse fasi. La prima è bulimica, ingoiare il testo e tutto quanto è stato scritto su quel testo: la lingua originale, le diverse stesure e le diverse traduzioni in italiano nel caso di Hamlet, i carteggi del Manzoni e la prima composizione di Fermo e Lucia, la Colonna Infame, i racconti sulla genesi dell’opera, il contesto storico e le relazioni tumultuose di D’Annunzio con Eleonora Duse per La Gloria.
Dopo la bulimia, ecco il rigurgito della quantità testuale in una porzione di riscrittura, che si presume funzionale a diventare testo nuovo o da stimolo alla creazione autonoma di testo originale da parte dell’attore, personale, privato. Ad esempio, per Hamlet ho riscritto il testo delle parti selezionate e – riferendomi all’originale inglese del Seicento – ho cercato di rispettarne la ritmica e la musicalità, anche con assonanze spinte come: Io qui o io non qui… per to be or not to be. Naturalmente avendo ben presente che la straordinaria attrice, Barbara Voghera, lo avrebbe re/citato per davvero perché era nella condizione privilegiata di poterne interpretare, non capirne, il senso più profondo. Non lo avrei scritto per qualsiasi attore. Per i Promessi Sposi il testo selezionato ha funzionato da struttura scheletrica per un disegno narrativo minimo riempito dalla grande quantità di pensiero, parole, suoni, rumori che ogni singolo attore ha creato seguendo la griglia emozionale proposta da Federica Maestri. Il materiale di registrazione audio e le improvvisazioni guidate hanno composto il nuovo testo, sconfinando anche nella drammaturgia musicale che, insieme alla rielaborazione originale del Requiem verdiano, amplificava le masse sonore che vestivano le diverse sequenze drammatiche. Le trasformazioni testuali degli attori sensibili restituivano il senso originario delle figure manzoniane con incredibile credibilità contemporanea. I suoni del desiderio, della paura, dell’eros, della rinuncia e di ogni altro stato emozionale riconducibile alle figure del romanzo restituivano respiro, e quindi teatro, ai protagonisti, i magnifici umili erano qui, nella finzione, con tutta la forza della loro vita vera.
Poi viene l’immagine, componente primaria nell’estetica di Lenz Rifrazioni fin dagli anni Ottanta. I Promessi Sposi, in particolare, rappresentano un momento chiave della vostra produzione. L’installazione scenica è sdoppiamento continuo tra corpo reale e corpo virtuale, elogio ai mille piani della visione. Vorrei parlare del cammino verso questo luogo d’immagini.
Il lavoro sulle testualità porta all’idea del luogo, dell’installazione dell’opera a venire, dei primi disegni e configurazioni di Federica per il “paesaggio”, della prima visione dei campi scenici, dell’architettura drammatica, dove abiteranno i poeti. Da qui l’affiorare delle prime immagini da quell’archivio monumentale che in un quarto di secolo si sono stratificate nel mio inconscio visivo e molte altre che provengono da fonti differenti, sempre attraverso una selezione automatica, istintiva, che fatico a comprendere poiché, da tempo, esiste una griglia estetico/etica nel mio cervello che libera soltanto gli stimoli necessari a formare l’immagine che serve in quel momento, e per quell’opera precisa. Alcune volte avviene quando la lettura dei testi è terminata, altre in corso di apprendimento. Può essere Antonello da Messina per la Vita è Sogno, o la costa e il mare di Tangeri per il Principe Costante da Calderón de la Barca o due lumache che copulano per Chaos da Ovidio, o il volto di un vecchio al balcone a Bucarest per Exilium, o come capita talvolta, il rimando mi arriva invece a posteriori, come per le immagini strette e lunghe dei corpi dei Promessi Sposi. Solo dopo averle create, le sculture, i ritratti e i dipinti di Giacometti, Modigliani e El Greco mi sono apparsi come rifrazioni luminose dalle figure trasparenti proiettate sugli schermi. Il mio archivio mentale è composto però anche da molto cinema, Ingmar Bergman e Jean-Luc Godard tra i tanti autori che mi hanno formato.
Drammaturgia e immagine hanno dato vita a ciò che tu hai nominato Imagoturgia. Si tratta di un neologismo corrispondente a un concetto estetico-operativo che crea un legame di sangue tra testo e tecnologie video. La relazione tra questi due linguaggi si presenta ogni volta sotto molteplici forme: l’imagoturgia non ha una forma data, ma è un continuo scambio energetico tra drammaturgia e immagine, che di volta in volta assume sembianze diverse.
La prima opera di Lenz Rifrazioni nel 1985, Lenz di Büchner, conteneva un film girato in 16 mm. dove l’attore guardava se stesso mentre correva tra i loculi quadrati del cimitero di Modena, disegnato da Aldo Rossi. Alla fine il suo occhio diventava quello della macchina da presa e, sopraelevandosi di poco, in soggettiva guardava verso la stessa direzione del sé virtuale. Era una citazione da Film di Beckett interpretato da Buster Keaton. Probabilmente nasce da lì l’esigenza di approfondire il rapporto formale tra il reale teatrale e l’immagine, sul doppio agire di drammaturgia e imagoturgia. In questo contesto, la tecnologia video è solo lo strumento rapido per il passaggio dal pensiero visivo all’immagine. Quest’ultima, quando appare, deve coincidere nella forma con la fonte originaria della sua generazione, deve guardarci in faccia allontanandosi come in un carrello all’indietro, come l’Angelus Novus di Klee. Noi l’abbiamo creata e liberata per rappresentarci nel mondo di fuori, nel futuro dove si proietta ma con lo sguardo sempre rivolto al nostro sguardo, occhi negli occhi. La tecnologia serve per ricercare, tra gli innumerevoli modi, gli strumenti migliori per darle un nome, un senso, una funzione.
In Imagoturgia della Grazia, dove ho, come in un mosaico, composto diverse sequenze di opere diverse di Lenz, questa funzione penso di averla ottenuta in maniera differente dall’imagoturgia e solo nell’insieme dei frammenti, disgiunta dall’originaria funzione imagoturgica per la quale le immagini erano state create, ricavandone perciò un’utilità documentaristica, quasi archivistica. Lontane dal loro spazio e dai loro corpi reali sono ritornate sequenze tout court, nonostante il titolo, prive di quella specificità che le rivitalizzava drammaturgicamente quando apparivano nel loro habitat naturale, la scena teatrale. Erano tornate solo … immagini. Così come le immagini/titolo de La Gloria, il loro érgon, il loro lavoro è stato non solo didascalico ma ritmico e “paesaggistico” nel senso più pittorico del termine; nel carattere scelto, nello sfondo geometrico e nei rimandi idiomatici che creavano il fuori, l’esterno dell’interno. In Hamlet Solo, così come nei Promessi Sposi, il continuo rispecchiarsi e “dialogar/si” tra immagine e corpo dello stesso attore ha composto quell’imagoturgia che trasforma l’immagine creata in precedenza in teatro vitale e viceversa, in una dialettica profonda – in agone estetico – che fonde insieme parola e gesto, finzione e verità (l’immagine non mente, un’immagine è un’immagine, parafrasando Godard), qui e ora e qui e allora, il presente e il passato, l’Io e l’Es del performer supersensibile o semplicemente sensibile. Ho inventato il neologismo – imagoturgia – perché troppo spesso l’immagine proiettata era, ed è tutt’oggi, molto spesso solo parte fondamentale della scenografia, o amplificazione visiva del corpo dell’attore, o fantasma virtuale dialogante o agente evocativo, oppure sostituisce il ruolo primario dell’attore stesso diventando essa stessa protagonista, epifania nel significato primario di apparizione divina per suscitare emozioni e visioni grandiose. L’immagine che nasce e opera dentro la drammaturgia e che senza l’attore vivente non avrebbe essa stessa funzione drammatica è l’oggetto di questa ricerca ancora aperta a molteplici riflessioni e nuovi esperimenti linguistici.
Per concludere, vorrei qualche anticipazione riguardo il laboratorio Pratiche di Teatro Visuale che terrai tra aprile e giugno 2014.
Nel 2014 vorrei iniziare un corso di Imagoturgia a Lenz Teatro in cui sviluppare alcune delle questioni accennate qui, in particolare il testo letterario, la storia dell’arte, il cinema come territori di partenza per la ricerca di un’immagine la cui nascita possa avvenire dentro un corpo drammaturgico, che sviluppi la propria potenzialità estetico/poetica in un ambiente vivente che solo il teatro può fornire. Da Godard a Bill Viola, da Antonello a Bacon, da Ovidio a Murakami, questi sono alcuni dei passaggi che vorrei attraversare prima di iniziare un lavoro d’insieme sul tema del prossimo festival Natura Dèi Teatri: I due Piani. Sulla suggestione di Deleuze gli allievi potrebbero iniziare un percorso nuovo di pensiero sull’immagine e alcuni lavori video selezionati potrebbero essere presentati all’interno del programma artistico del festival per continuare a riflettere sull’importanza dell’immagine on stage nel teatro contemporaneo.