• Torna allo Strehler di Milano la Follia teatrale di Jan Fabre

    La ricordiamo bene quella notte di trent’anni fa, quando Jan Fabre fece irruzione al festival di Polverigi. E subito ne fummo conquistati. Questo è teatro come ci si poteva aspettare e prevedere, diceva il titolo presuntuosamente assertivo. Il venticinquenne artista di Anversa aveva destato qualche brivido pubblico con le sue solitarie performance di stampo duchampiano (in Money bruciava le banconote raccolte fra coloro che vi assistevano…) ma era praticamente sconosciuto alla scena teatrale. Sul piccolo palco nudo, chiuso sul fondo da un telo bianco da proiezione, sotto una selva di ganci da macelleria, inquietanti anche se usati per appendervi e fare dondolare le seggioline che costituivano l’unico provvisorio arredo della scena, otto attori reclutati tramite un’audizione mettevano in atto una serie di azioni ripetitive, dilatate fino allo sfinimento degli interpreti. Un agghiacciante spogliarello innestato su un dialogo di quotidiana banalità. Una coppia impegnata in una corsa a perdifiato. Un’altra in un frenetico e sempre più scomposto spogliarsi e rivestirsi, a tratti immobilizzato dall’irrompere in scena degli altri performer…

    Quando l’anno successivo debutta alla Biennale di Venezia con il nuovo spettacolo dal titolo altrettanto imperativo, Il potere della follia teatrale, Fabre è già un artista di culto per una generazione cresciuta all’insegna del nuovo (sbaglia o semplicemente non c’era e non sa chi parla di scandalo o di provocazione, termini del resto per lo più usati a sproposito). E quest’altro lavoro, con una compagnia più numerosa e un più ricco apparato visivo, che non a caso per molti tratti richiamava l’iconografia barocca, poteva apparire una traduzione del primo per un pubblico più largo. Non lo diceva proprio quel lussureggiante apparato iconografico, da Michelangelo ai fratelli Le Nain, al posto dei pochi frames proiettati in loop di filmini in super 8 che riprendevano l’artefice con un sacchetto calato sul volto o una pistola alla tempia; o l’esplodere danzato di un Crepuscolo wagneriano a contrappunto del dolce e seriale minimalismo delle musiche di Wim Mertens, laddove nell’altro c’era solo duro silenzio intorno al corpo dei performer?

    Rivederli ora, a tanta distanza di tempo, sul palcoscenico borghese del teatro Strehler dove tornano  dopo il passaggio l’autunno scorso al festival Romaeuropa (dal 27 maggio), riallestiti per un gruppo di interpreti ovviamente nuovo ma così uguali a come stanno fissati nel ricordo, può provocare qualche stordimento e parecchie domande per l’ormai sparuto spettatore di allora. A cominciare, non può essere che così, dal senso che assume il riprendere oggi quegli spettacoli, in un clima sociale e culturale tanto diverso. Non vi è dubbio infatti che essi appartengono al loro tempo, e tuttavia ciò non toglie che possano parlare a uno spettatore contemporaneo, come fanno Las meninas o Les demoiselles d’Avignon.

    Può capitare così che proprio Il potere della follia teatrale, più insidioso nel dissimulare sotto il velo spettacolare un nucleo incandescente, può riservare inattese emozioni. Ecco l’attrice che in fila con gli altri, ma a differenza degli altri rivolta verso la sala, apre la camicia e si prende il seno con la mano, replicando ambiguamente il gesto del dipinto di genere proiettato sul fondale. Ma ecco anche, di seguito, pochi versi della Pentesilea di Kleist a dirci il resto di quel gesto. Baci e morsi che si confondono, per l’amazzone che in una sorta di furore erotico ha dilaniato il nemico amato. E torneranno più volte, quei versi cantati in una sorta di refrain, mentre si moltiplicano baci collettivi e nel ricordo dei fratelli Grimm quei baci tentano di tramutare in principi delle rane e i principi ballano nudi nello specchio che li raddoppia. Basta soltanto connettere, come insegnano i maestri. Però che commozione in quel prolungato finale in cui i baci non riescono più a risvegliare chi continua a morire e fugge da un abbraccio che ormai stringe il vuoto.

    Het is theater, questo è teatro, come dargli torto. Con il suo tempo, che alla fine è trascorso consapevolmente. Per entrarci bisogna accettarne la chiave. Come l’attrice spinta a forza giù dal palco, finché non risponde a quel “1876?” che le viene chiesto in tutte le lingue. I Nibelunghi, Richard Wagner, Bayreuth. Il punto di partenza di una storia lunga più di un secolo che Fabre assume per intero, a proposito di presunte parentele o derivazioni, moltiplicando e mischiando date luoghi artisti e titoli che da quel lontano “teatro totale” portano al suo.

     
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