Nella storia del progetto grafico, il manifesto è il mezzo espressivo per eccellenza: duttile ed economico, dalla visibilità immediata e dalla fruibilità totale. Non richiede applicazioni tecnologiche, tanto meno ingenti mezzi. È sufficiente stamparlo e affiggerlo, in spazi consentiti o non: in ogni caso, anche se per brevissimo tempo, può catturare l’attenzione del passante. Per questa facilità d’uso il manifesto è sempre stato amato dai grafici, a partire dai futuristi, che fecero della sperimentazione tipografica un’arma dirompente.
La vocazione sociale e politica della grafica, per quanto possa apparire strano ai giorni nostri, ha rappresentato una zona d’ombra o di luce, a seconda del momento storico, ma in ogni caso è sempre stata presente. Quasi cinquant’anni fa alcuni grafici sentirono la necessità di ridefinire il senso della loro professione pubblicando su “The Guardian” nel 1964 il manifesto “First Things First” (riproposto aggiornato nel 1999, “First Things First 2000”, e pubblicato su Adbusters, the AIGA Journal, Blueprint, Emigre, Eye, Form, Items) che esprimeva una radicalizzazione del pensiero sul progetto, individuando nella responsabilità sociale del progettista la stessa ragion d’essere della sua professione, e proponendo di dare la priorità a contenuti “utili”. In Italia le stesse domande e i tentativi ad esse di risposta furono formulate a partire dalle riflessioni e dai lavori di Albe Steiner, uno dei padri fondatori della cultura del progetto grafico negli anni Sessanta, e successivamente riprese da molti autori ed esplicitate alla fine degli anni Ottanta nella “Carta del progetto grafico”.
In questa logica, attraverso un sentire comune che oltrepassa i confini e le barriere culturali, si situano i lavori di alcuni progettisti.
Nato nel 1944, allievo della scuola polacca (compagno di studi di design di Henryk Tomaszevski a Varsavia), il bretone Alain Le Quernec è l’incarnazione stessa della grande tradizione dell’affichisme. Partecipando al convegno “No brand, more profit: etica e comunicazione”, a Roma nell’autunno del 2001, racconta la sua esperienza a partire dal Maggio francese, momento cruciale nel quale intuisce che il manifesto sarà la sua modalità espressiva principale: “è stato allora che mi sono reso conto che se avevo qualcosa da dire potevo farlo attraverso i manifesti, perché il manifesto è un supporto così come lo è la tela per il pittore”. Proprio nel 1968 realizza un manifesto per denunciare una catastrofe ambientale in Bretagna, causata da una nave cisterna. Il testo recita: “marea nera, il governo ha le mani sporche”.
A differenza dei suoi colleghi del collettivo Grapus, fondato nel 1970 da Pierre Barnard, François Miehe e Gérard Paris-Clavel, Le Quernec preferisce una dimensione isolata, stabilendosi a Quimper, una cittadina della Bretagna.
In oltre quarant’anni di attività, ancora felicemente in essere, Le Quernec ha disegnato manifesti per il cinema, il teatro, sulla guerra, su temi sociali ed etici, di pubblica utilità e ha collaborato con associazioni umanitarie come Amnesty International, e con l’Unione Europea. Proverbiale la sua ironia, come quando Chirac, sciogliendo il parlamento per andare alle elezioni anticipate, fu sconfitto dalla sinistra: subito dopo la fine del discorso presidenziale la città di Quimper fu tappezzata da manifesti con su scritto “Credo di aver fatto una grande sciocchezza”. Del resto, la forza del suo lavoro risiede esattamente nella carica beffarda e mai moralista delle sue immagini, sempre caratterizzate da colori vivaci, composizioni dinamiche con un forte richiamo alla pop art e al fumetto. Da vero anarchico della grafica, sprovvisto di affiliazioni a partiti o élite culturali, Le Quernec ha stabilito un rapporto di collaborazione con la municipalità di Quimper e per anni ha insegnato ai ragazzi delle scuole medie locali, coordinandoli nella realizzazione di campagne di comunicazione sociale, poi autoprodotte e affisse nella cittadina. Nell’ultimo decennio entra in contatto con l’opera dei grafici iraniani, in particolare Morteza Momayez e il gruppo The 5th Color, e contribuisce fortemente a divulgare il loro lavoro nei paesi europei.
Un’altra esperienza, questa volta oltreoceano, individua nella comunicazione visiva un soggetto di attivismo sociale. Dal 1990 Inkahoots, studio di design di Brisbane, Australia, fondato da Robyn McDonald e formato, oltre a lei, da Jason Grant, Ben Mangan, Joel e Kate Booÿ, opera localmente e a livello internazionale a favore di organizzazioni che difendono i diritti umani, associazioni che lavorano sulle contraddizioni del mercato o promuovendo campagne proprie, nella convinzione che una comunicazione visiva creativa e originale può dar voce a questioni sociali che altrimenti non sarebbero di dominio pubblico, data l’inaccessibilità ai media dominanti e la prevalenza di interessi economici e politici. Inkahoots nasce come laboratorio di serigrafia e collettivo di artisti, e fa del radicamento nel territorio e nella profonda interazione con la comunità locale un punto di forza. Secondo McDonald “il designer non deve più sostenere l’insostenibile”. Il progettista è consapevole del suo ruolo nella comunità come cittadino, e insieme responsabile del proprio agire in quanto professionista. Usando un linguaggio visivo avventuroso e una ricerca tipografica accurata, Inkahoots si batte per una comunicazione libera dai condizionamenti del mercato. Negli anni lo studio si è trovato ad affrontare questioni spinose, come la discriminazione razziale, argomento di scottante attualità nel Queensland, il problema degli homeless, la propaganda governativa.
Qualche riferimento:
First Things First: http://www.xs4all.nl/~maxb/ftf1964.htm
Carta del progetto grafico: http://www.aiap.it/documenti/8046/71
Letizia Bollini e Carlo Branzaglia (a cura di), No brand more profit: etica e comunicazione, Aiap Edizioni, Milano, 2003.
Multiverso – Icograda design week Torino, Aiap Edizioni, Milano 2008.
http://www.alainlequernec.fr/actualite
http://www.inkahoots.com.au/
Si ringraziano Alain Le Quernec e Jason Grant per la gentile concessione delle immagini.