• Passioni Inferni. Dislocazioni temporali della scena

    1.

    C’è un momento esemplare nella bella messa in scena della Trilogia della villeggiatura allestita da Toni Servillo.

    La giovane protagonista di quelle smanie, di tutta quella comica infelicità per un abito o per un amante, avanza sola fino al margine del proscenio ma lì, invece di dar voce a un suo atteso monologo, si arresta immobile, nel fascio di luce che la illumina, in una sorta sospensione del gesto accennato. Alle sue spalle, appena visibili nel controluce della penombra, i suoi compagni hanno iniziato a smontare la scena, spostando arredi, piegando il tappeto erboso che la copre. Solo quando il cambio di scena è completato, lei sembra risvegliarsi e allora si avvia risoluta verso il fondo.

    In quale tempo siamo precipitati?

    Siamo qui ma siamo anche altrove, in un altro tempo.

    Non è solo l’ovvio sovrapporsi di due piani temporali diversi. Il presente dell’attore, proprio in quanto essere agente, lì e ora, e quello dell’azione che si fa, che d’improvviso ci appare come un futuro anteriore delle situazioni o dei personaggi di cui ricostruisce la storia. E in mezzo il presente ambiguo dello spettatore, imprendibile se a questo si resta. Tirato fra l’uno e l’altro, fra un presente loro ancora tutto da fare e un presente attuale che si riavvolge continuamente in passato. Fra cui faticosamente cerca di aprirsi un varco, cioè una durata.

    Non è solo il sovrapporsi di due piani temporali diversi. Quella che si produce sulla scena sembra una vera e propria dislocazione temporale, un difetto di linea che si presenta nella struttura cristallina del tempo scenico. Lo scivolare di un piano atomico di tempo sopra l’altro, sotto l’impulso di uno sforzo di taglio che solo lì può agire con tanta intensità. Che solo può spiegare la plasticità con cui ci si presenta l’evento scenico. E anzi il graduale aumento della densità delle dislocazioni inevitabilmente comporta una sempre maggiore resistenza al movimento. Fino a produrre un incrudimento del materiale spettacolare.

    Altri momenti certo tornano in mente. Non per caso si è scelto il termine momento, come quello che consente di pensare il presente al di fuori dell’involucro di un tempo che si svolge linearmente fra un inizio e una fine. E di aprirsi dunque a esso come a un’occasione. Succede ne La menzogna di Pippo Delbono che d’improvviso si produca una frattura nel montaggio ben temperato delle immagini sceniche. Una pausa che si dilata ad abbracciare spettatori e interpreti. Gianluca, chiama l’artefice rivolto all’attore dalla pelle rosea che corre nudo e leggero come un gatto. Come a uno svegliarsi dal sonno (e dal sogno) della rappresentazione.

    E allora torna in mente anche il finale altrimenti esemplare del più lontano Giulio Cesare di Romeo Castellucci ancora con la Societas Raffaello Sanzio. La retorica del teatro che ricomincia con il suicidio di Bruto replicato fra gli applausi registrati. Mentre però la ragazza che faceva Cassio si è rialzata e richiama l’altra ancora ferma in proscenio, che ancora si attarda con il “personaggio”: dai Elena, vieni via, che ci fai lì. La rappresentazione è davvero finita.

    2.

    Il silenzio. Di una consistenza diversa da quello che sui ruderi della vecchia Gibellina seguiva il boato del terremoto. Il silenzio dei gesti abituali, ritmati da una lentezza capace di dar vita a una sorta di ritualità. All’inizio de La menzogna c’è solo questo silenzio, a lungo, mentre un uomo si avvicina a un paio di armadietti metallici, inquadrato in uno sghembo taglio di luce che lascia in vista solo un angolo della scena. Si toglie il vestito e indossa una tuta operaia. Un altro arriva in bicicletta. Compie il medesimo quotidiano rituale di distacco da sé per entrare in altri panni. Poi altri uomini, e donne. Si cambiano a loro volta d’abito, si avviano verso l’apertura che li inghiotte, sul fondo della scena. Passa anche il piccolo Bobò con il casco giallo d’obbligo per i lavori pericolosi.

    Da lì, da quella soglia qualcuno esce, per compiere il rituale opposto. Qualcuno che ha finito il suo turno. Si spoglia della tuta, riveste un abito scuro. Ripone con cura i panni del lavoro.

    Bisogna concentrarsi sul gesto. C’è solo questo, sembra dirci il silenzio che l’avvolge. La sua banalità quotidiana che fa da antidoto a qualunque possibile velleità di renderlo memorabile.

    La morte è un cambio di luce. Un passaggio da un capo all’altro della scena. L’uomo vestito di scuro ha tratto dall’armadietto anche un piccolo mazzo di fiori. Con lo stesso passo silenzioso e concentrato si dirige dall’altra parte, si sdraia nel loculo disegnato dalle quattro sbarre di un’intelaiatura metallica, con quei fiori sul petto.

    Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore, dice la voce di Delbono che arriva dal fondo della sala.

    Sono le prime parole che ascoltiamo, con un sussulto.

    Due piani temporali diversi slittano l’uno sopra l’altro in quel futuro anteriore che è il presente della scena. Ed è già passato. La memoria collettiva sembra soccombere sotto il peso di quella personale. Il ricordo di una tragedia ancora recente dà campo alla ferita non rimarginata di un lutto privato, più lontano.

    Una memoria anacronica.

    Come la fotografia del condannato a morte di cui parlava Roland Barthes, in attesa dell’impiccagione (“È morto e sta per morire”), anche la scena ci mette di fronte a una catastrofe che è già accaduta. Ci dice un futuro anteriore di cui la morte è la posta in gioco. (Barthes parlava però di una compressione del tempo, in quel sovrapporsi del presente dello sguardo e dei tempi diversi richiamati dall’immagine).

    La notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007 scoppiò un incendio in una delle linee dello stabilimento della ThyssenKrupp, a Torino. Morirono sette operai. Da quell’incendio, dalla memoria di quei morti, prende il via dichiaratamente lo studio di Pippo Delbono. Dall’incapacità di provare dolore. Solo pietà, per quei morti. Pietà per me, dice l’artista.

    E tuttavia La menzogna non è uno spettacolo sulla tragedia della Thyssen, o sulle cosiddette morti bianche, così come Il silenzio non era uno spettacolo sul terremoto, ma su ciò che lo aveva seguito. Il silenzio dei vivi e dei morti. Dopo comincia lo spettacolo, o ciò che provvisoriamente possiamo chiamare con questo nome. Sempre, comunque. Se mai La menzogna è uno spettacolo sul dolore. Sulla sua consolatoria esibizione, sulla difficoltà di viverlo in profondità e non come menzogna (la tirata ideologica di padre Zanotelli sui guasti della finanza globalizzatrice, quasi insopportabile nella sua banalità simmetrica all’ottimistico developping the future di un filmato pubblicitario della multinazionale tedesca).

    Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore, dice Delbono citando una canzone di De Andrè. Di fronte a quel corpo disteso in una bara puramente mentale. Prima di scendere sulla scena a impomatarsi i capelli e mettersi elegante in mezzo alle figure mascherate che intanto hanno preso possesso dello spazio scenico, dove nell’oscurità si è rivelata un’impalcatura metallica a diversi piani.

    delbono4 Menzogna

    Uomini e donne vestiti di scuro, con pretese di eleganza, anche qualche prelato. Come un Balcon genettiano, o un film di Buñuel. Ma il fascino discreto di questa borghesia non nasconde la finzione, amplificata figurativamente da una coppia celata sotto grandi cappelli carnevaleschi. Ed ecco che ci troviamo ricondotti nel mezzo delle immagini sempre un po’ surreali che si affollano nel mondo onirico di Delbono. Danzano queste figure sulle musiche di vecchie canzoni tedesche degli anni Trenta, tipo Zarah Leander. Assistono senza passione allo spogliarello di una ragazza. Abbaiano come cani alla luna. Trasformano gli armadietti industriali in reclusori confessionali. Mentre esplodono musiche emotive, dai pieni orchestrali di Michael Galasso al Sacre di Stravinskij fino alla voce di Juliette Gréco.

    Fra queste due zone mentali e fisiche dello spettacolo si apre un’altra zona, una terra di nessuno. A questa, potrei il nome di fascismo. Non quello risibile dei camerati nostrani. Forse quel che nella parola vi leggeva Pasolini. Di cui è solo uno specchio il bisogno quasi fisico di colpire, di dar botte di manganello alla cieca e scagliare parole di rabbia contro poveri o diversi. È che nelle acque scure del teatro, spesso torbide, bisogna immergersi. Lasciarsi andare a fondo, come un palombaro. E vedere cosa si porta a galla.

    Alcuni minuti di pausa, annuncia Delbono. Forse perché la violenza accumulata è ormai al culmine. Si fa luce in sala. Ed è il momento più dolce, più umano cioè. È il Delbono buddista, se si vuole. Sfuggendo ai richiami del regista, Gianluca Ballarè corre nudo e leggero come un gatto. E c’è spazio anche per una passerella di Bobò che manda baci e stringe le mani degli spettatori, già prima oggetto delle attenzioni fotografiche dell’artefice. Mentre Nelson, basco rosso e zaino in spalla, da artista di strada porta in giro una natura morta incellofanata.

    È il prologo all’esplosione di corpi con cui si apre la seconda parte, a mettere sottosopra la nostra coscienza. Nudi, rabbiosi. Scossi da uno shock elettrico. Portati a braccia in scena come morti. Illuminati in volto con una torcia, il casco giallo poggiato lì accanto ormai inutile. Mentre tornano a contrappunto le figure mascherate di prima, ancora più lugubri e alienanti, e una Giulietta urla al suo Romeo le parole di Shakespeare in lotta col crescendo della musica di Wagner.

    In questo denudamento che non risparmia neppure l’artefice si consuma la volontà di misurarsi con i propri fantasmi, con la propria vergogna. Sconcio e pudico. E se la dedica finale “a mio padre” rivela molto, forse troppo, attraverso la crudezza dello smascheramento emerge la consapevolezza di una più profonda pietas.

    3.

    Quale sia il tempo del teatro, e quale memoria così venga attivata, è questione che sempre ritorna davanti a spettacoli che mettono in gioco il lato emozionale dello spettatore. È accaduto con l’ultimo spettacolo di Delbono come prima, per restare a queste più recenti stagioni, con le creazioni di Alain Platel e Romeo Castellucci o il doppio sogno allestito da Alvis Hermanis nello spazio dilatato e allo stesso tempo concentrazionario di un’abitazione collettiva, troppo minuziosamente ricostruita per non destare sospetto.

    Proprio quest’ultimo ci aiuta a volgere in termini più interrogativi una domanda che suona convenzionale: esiste una specificità del lavoro teatrale nella messa in scena della memoria? E ciò mettendo naturalmente in conto l’eclettismo che attraversa i lavori del regista lettone, le diverse chiavi linguistiche che utilizza, il grottesco di Revidents e l’elegia acida di Sonja, la trasparenza contemporanea di By Gorky e l’opacità memoriale di Sound of silence e Long life.

    Hermanis-by-gorki

    Se prendiamo la vita umana come cima di una memoria cumulativa, l’atto di ricordare si presenta come una funzione di salvataggio che permette il ritorno su scene non più attuali. Ma dei culti della memoria bisogna sempre un po’ diffidare. La tendenza alla ripetizione che vi è collegata rivela facilmente il loro lato regressivo. Meglio concentrarsi su una infedeltà del ricordo che giustifica slittamenti temporali, contro l’equivoco della scena come museo. L’unica verità alla fine torna a essere quella degli attori col loro nome e del regista presente in scena (“Io mi chiamo Romeo Castellucci”, era stato l’incipit del primissimo gesto di autoaffermazione dell’artista, civettando con la memoria di Andy Warhol nell’Inferno avignonese).

    Altra è la questione che preme. Che rapporto c’è tra questa memoria (infedele) e il tempo storico che viviamo? Giacché sentiamo quanto sia rimasta incompiuta l’elaborazione del mondo uscito dalla dissoluzione del bipolarismo, al di là di fascinanti evocazioni della fine della storia. Forse solo qualche filosofo e qualche artista ci stanno fornendo delle chiavi di comprensione.

    4.

    È con tutta evidenza una Passione contemporanea la creazione che Alain Platel ha voluto titolare pitié! come a marcare, con la minuscola del titolo, non tanto lo spirito laico con cui lo spettacolo dà corpi e immagini alla Passione secondo Matteo, quanto piuttosto una dimensione minore, del tutto umana e non divina. Così come l’acronimo del precedente vsprs ispirato al Vespro della Beata Vergine di Monteverdi alludeva comunque a una mancanza, a una caduta, e in entrambi i lavori è poi significativa la scelta di rompere con sonorità jazz e zingare o pop la solennità della musica colta.

    C’è a un primo livello, in questo bellissimo lavoro, un’idea di condivisione cara a Platel. Il teatro come luogo da abitare, la pièce come evento collettivo che ha nel suo stesso farsi la propria ragione prima. Sono tutti lì, fin dall’inizio. I danzatori dai vestiti molto colorati seduti in fila contro una parete della scenografia a più livelli. Il gruppo dei musicisti collocato a un piano più alto. Un po’ di lato, appartate, altre tre figure vestite di nero, sedute a un tavolo, che si riveleranno poi le tre voci liriche sui cui poggia il testo musicale, e dunque per la sua parte il racconto.

    Platel pitie1

    A generare l’azione sono in primo luogo i continui cambi di ritmo dettati dalla musica composta da Fabrizio Cassol, dove a tratti emerge con maggiore evidenza il tema della Passione bachiana, la trascinante aria Erbarme dich che anche da un punto di vista contenutistico costituisce il nucleo germinativo del lavoro. Al suo via parte un assolo quasi di street dance, uno dei danzatori esce dalla fila e si proietta verso il tavolo dei cantanti, con atteggiamento provocatorio. Un altro danzatore si stacca dal gruppo, è richiamato indietro. Un terzo prende il coraggio di farsi avanti. Ai lati, corpi invisibili si sollevano dentro sacchi di plastica blu, veri e propri rifiuti umani. Una coppia resta in mutande e duetta in silenzio, torcendosi a vicenda la pelle fra sussurri ansimati. Si rivestono, ma lei ci riprova subito con una altro. I love you all, mormora una voce dal fondo. Un po’ alla volta tutti sono coinvolti in una danza che rifugge i canoni della gradevolezza. Tutti sono trascinati in un corale avanzare a quattro gambe. Quando i cantanti si alzano dal posto e iniziano a cantare, anche il canto diventa corale. Compare un’ascia che passa di mano in mano, e tornerà nel finale a tagliare di forza il nodo della vicenda.

    Platel jr_pitie_company_pile_500Ed ecco il comporsi di un gruppo compatto e il suo tendersi in una sorta di piramide verso un corpo appeso a un gancio come una macelleria. Un gruppo che già nei colori vivaci ricorda la Deposizione di Rosso Fiorentino. E da qui la mente non può che correre alla Ricotta pasoliniana, a un’altra Passione che riconduce su un piano terreno l’esperienza del sacrificio divino.

    Che il verbo sia fatto uomo, si era udito in apertura.

    Il tempo storico si specchia in quello della composizione musicale, entrambi colmi di un potere evocativo che punge il nostro presente, sotto l’istanza della crocefissione.

    Ciò che soprattutto scuote sul piano emozionale, e può persino imbarazzare, in questo piccolo cosmo umano, è il manifestarsi di una umanità disturbata, disarmonica, a volte brutale. Spasmi e smorfie. Contorcimenti che sembrano dar corpo alle figure di Bacon. Gesti malati. Un inferno in cui per entrare sembra di dover lasciar fuori ogni speranza di grazia. Un arrampicarsi l’uno addosso all’altro. Un toccarsi accecati come unico modo per conoscersi. Un ruotare come Sufi per poi spegnersi a terra. E fingersi Bruce Lee. Accendere piccoli fuochi. Moltiplicare abbracci che sembrano replicare l’immagine plastica di una Pietà al cui dolore non possono attingere. Pietà per questi nostri corpi, sembrano chiedere mentre sperimentano la vergogna della nudità oltraggiosa, tutti accosciati di spalle coi calzoni calati.

    Ma cosa c’è al di là della pietà?

    Come in vsprs, Alain Platel attraversa i temi della patologia mentale, dell’isteria, dell’autismo. Rinnovando lo scandalo di una scena capace di far coesistere nella disarmonia, come insegnavano i maestri, santità e derisione, il lutto e la gioia. Alla ricerca di una verità che può anche significare provvisoriamente un riconoscersi simili, riconciliati dalla forza evocativa di un’aria bachiana.

    5.

    Talora la dislocazione temporale diventa l’oggetto vero e proprio dello spettacolo.

    Succede nel Purgatorio realizzato da Romeo Castellucci ad Avignone, l’estate scorsa, punto di resistenza di una trilogia dantesca o piuttosto di un polittico che converge nella rappresentazione emozionale di un inferno domestico. (L’inferno si sconta vivendo, naturalmente).

    castellucci-bilios2009-06-11_230355Puro teatro borghese, all’apparenza, che l’allestimento su un tradizionalissimo palcoscenico contribuisce a inquadrare nella sua conosciuta dimensione drammatica. Un’ampia cucina minuziosamente arredata dove una madre prepara la colazione per il figlio. La camera da letto del bambino che gioca a nascondersi nell’armadio per “combattere i mostri” in compagnia di un Mazinga che nell’immaginazione può assumere le dimensioni ipertrofiche con cui d’improvviso ci appare. La sala che testimonia del benessere di questo minimo nucleo sociale, con i suoi divani, la zona pranzo che attende il padre reduce da qualche faticante viaggio di lavoro. Dialoghi scarni, funzionali, anticipati in forma di didascalia, quasi a sottolinearne la letterale pre-vedibilità.

    Ma come nelle immagini di Gregory Crewdson, in questo universo perfettamente logico, normale, familiare, si osserva una crepa, un’infrazione. Le parole d’improvviso si scollano dalle azioni. Due tempi diversi si divaricano nella nostra percezione.

    Dov’è il mio cappello, chiede il padre. E dietro la citazione della commedia allegra di Natalia Ginzburg si aprono abissi alla David Lynch. Le parole che leggiamo prolungano la loro prevedibile tessitura, didascalia di un’azione parallela che prosegue in una dimensione altra ma non puramente immaginaria, quella dovremmo dire della possibilità; mentre nel vuoto osceno che si è creato sulla scena si prolunga il sonoro dell’azione che va altrove. Irrappresentabile.

    -Dopo, soltanto, l’incubo di un incesto bestiale si traduce in immagini visionarie, enormi fiori che ruotano di fronte a uno specchio deformante, insieme all’uomo col cappello texano da cowboy. Come una foresta tropicale in cui può essere confortante perdersi. Giacché l’incubo è ricondotto nello spazio del visibile. Per riapprodare da ultimo in quella stessa sala svuotata di ogni arredo, e dunque anche dell’acquisita connotazione teatrale, dove la violenza si esorcizza in un balletto derisorio. Il bambino diventato adulto si accanisce con una sorta di violenta dolcezza su un padre menomato da una perduta o forse mai posseduta abilità.

    Qui non si tratta di distinguere fra realtà e fantasia, fra sogno e dormiveglia, fra chiarore e oscurità. La spaccatura nella struttura cristallina del tempo scenico è resa visibile con una evidenza mineralogica. La forza di taglio impressa alla materia spettacolare ha fatto slittare irreversibilmente i due piani temporali che ora ci si presentano stratificati, sovrapposti ma non separabili. Anche qui si può leggere con un senso crescente di inquietudine: questo sarà e questo è stato. La scena ci pone davanti a un futuro anteriore di cui l’incubo della violenza è la posta in gioco.

    6.

    Il tempo della scena, o per meglio dire il suo enigma, sembra dunque aver molto a che fare con la dimensione del sogno. È che di fronte all’enigmatica e instabile realtà dell’esistenza il sogno può presentarsi alla coscienza come una regione dell’anima in cui è possibile la realizzazione di una vita in potenza, non meno intensa di quel che possa l’esperienza teatrale.

    “Nessun sogno è interamente sogno”, dice la Traumnovelle di Schnitzler.

    Bisogna essere precisi. Se è vero che vi è stata da parte della vita diurna una progressiva colonizzazione dei territori in precedenza occupati dalla logica notturna del sogno. Quel che è in gioco è un campo della sfera psichica più vasto, è una zona intermedia fluttuante fra il conscio e l’inconscio. Da lì qualcosa risale continuamente verso il conscio o precipita nell’inconscio. Da questa zona provengono le figure mascherate dello spettacolo di Delbono o gli inferni familiari di Romeo Castellucci, non mero materiale onirico anche se costituito da resti della vita diurna.

    Non si sfugge all’analogia con la zona mediana dove lo sguardo dello spettatore incontra e si contamina con l’immagine che gli viene dalla scena.

    crewd-2003-2005-untitled-maple-street-web

    Uno stato sospeso tra il sogno e la veglia. È lì che affondano le teatrali immagini di Gregory Crewdson. Forgiate da una sorta di chiaroveggenza. Potremmo definire l’artista di Brooklyn un compositore di crepuscoli. Costruiti come una vera e propria messa in scena di un limite, di un’azione in cui il movimento tende allo zero. E dunque congelata in una sorta di fissità che la sottrae al tempo.

    Una vecchia automobile ferma in mezzo a una strada con una portiera aperta, da cui qualcuno è appena sceso.

    Una donna seduta sulla sponda di un letto, immobile, perduta in una attonita rêverie.

    Sono due fra le immagini che come metafore ossessive si ripetono con più frequenza nelle opere di Crewdson. Variate in tante combinazioni diverse. Dove proprio la ripetizione e la variazione possono riallacciarle a sogni ricorrenti, che vogliono celare nella varietà delle situazioni e dei personaggi un contenuto costante.

    Spesso anche il cofano posteriore dell’automobile è spalancato. Dal bagagliaio straripano fiori sparsi in disordine a terra. Quasi sempre chi era al volante ne è disceso, e ora sta immobile in mezzo a una strada deserta.

    A volte la donna è sola e correttamente vestita, nell’ordinata solitudine di un letto troppo stretto per accogliere qualcun altro. Più spesso il letto è sfatto e alle spalle della donna si intravede un uomo addormentato. O i resti disseminati di un roseto fatto a pezzi sono la traccia di qualcosa che è successo. Oppure lei si è alzata, nuda com’era, lasciando lui disteso addormentato, e sta in piedi al centro di un’enigmatica macchia scura impressa nella moquette.

    Crewdson mette in scena un momento nel futuro di un evento che si è appena consumato. Letteralmente, il suo futuro anteriore. Ciò che subito si osserva è una stasi nel movimento, il suo rivolgersi al passato dell’evento. Sul quale si possono fare solo supposizioni. Chi attende quel taxi con la portiera aperta? E perché la giovane donna che forse ne è discesa è scalza e mezzo svestita? La stessa perfezione del dettaglio è correlata a una immobilità che lo rende leggibile e lo giustifica.

    Non c’è inizio e non c’è fine nelle immagini crepuscolari di Crewdson, dunque non c’è propriamente un tempo, in rapporto con uno spazio da percorrere, con un movimento. C’è il momento che si prolunga nella durata.

    gregory-crewdson-22

    Un inferno senza passioni?

    Il mio sguardo torna irresistibilmente sui piedi nudi della ragazza, da cui si estende perpendicolare la sua ombra sottile. Come a un’infrazione nella logica narrativa del testo-immagine. Ma è su quell’infrazione che si gioca la possibilità di innescare un meccanismo di pensiero.

    È una regola. C’è sempre nei lavori di Crewdson l’aprirsi di una crepa, il rendersi visibile di un errore che mette sottosopra la superficie ordinata dell’apparenza. Quei petali di rosa che si allontanano dal roseto sradicato gettato su un letto. Quel filo di sangue che scende lungo una gamba. Quel pezzo di carne in tavola troppo grande per due soli. L’acqua che invade il salotto, dove giace una assorta Ofelia. Sono come le tracce di un’inquietudine o di un malessere che si è infiltrato nel mondo che conosciamo, fin dentro le nostre vite, nel quale siamo tutti coinvolti.

    E quale posizione prendere di fronte a quel che vediamo è l’interrogativo etico che l’artista (ogni artista) pone allo spettatore.

     

    Pubblicato in art’o n. 27

     

    Qualche riferimento:

    Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980.

    Remo Bodei, Piramidi di tempo, Il Mulino, Bologna 2006.

    Gregory Crewdson 1985-2005, catalogo a cura di Stephan Berg. Testi di Stephan Berg, Martin Hochleitner, Katy Siegel. Hatje Canz, Ostfildern 2007.

    François Jullien, Il tempo, Luca Sossella Editore, Roma 2002.

    Paolo Virno, Parole con parole, Donzelli Editore, Roma.