Lo ricordiamo bene quello scatenato e struggente Bernadetje, ambientato fra le macchine di un autoscontro, che ci innamorò di Alain Platel. Da allora, ed è passato più di un decennio, Platel si è affermato sulla scena internazionale fra i pochi artisti davvero cruciali per interpretare la contemporaneità (mettiamo Marthaler, Jan Fabre, Rodrigo Garcia, Alvis Hermanis quando non si perde nelle sabbie dei lavori su commissione…). Il regista e coreografo belga ci ha regalato spettacoli appassionanti e collaborazioni più eccentriche come lo stralunato cabaret di Gardenia, firmato insieme a Frank Van Laecke e nato da una idea di Vanessa Van Durme, attrice che già aveva collaborato con Platel in passato nel non dimenticato Allemaal indiaan. L’idea è quella di ridare vita per un’ultima sera a un locale di travestiti di Barcellona che ha chiuso i battenti. Eccoli i suoi vecchi artisti, immobili nei loro dimessi abiti borghesi e appesantiti dagli anni sul riquadro circondato di sedie, sulle note che dicono di Somewhere over the rainbow. Si fa anche un minuto di silenzio per quelli che non ci sono più. E la malinconia potrebbe prendere il sopravvento quando l’esuberante maestra della cerimonia li presenta al pubblico, ciascuna con il proprio nome d’arte o di battaglia e un catalogo di prevedibili qualità erotiche.
Ma basta che il meccanismo dello spettacolo si metta ancora una volta in moto, basta una musica pucciniana ed ecco allora che da sotto quei vestiti grigi spuntano colorate vesti (e pose) femminili. Di più, sono vere e proprie drag queen quelle che un poco alla volta si manifestano, sfilano in passerella, prendono a raccontarci le loro storie. In realtà fra i nove interpreti ci sono anche una vera donna e un ragazzo, piovuto qui chissà come dalla Russia caucasica. Presenza necessaria giacché funge da reagente, per età e genere, a quella chiassosa diversità che i corpi in scena esibiscono con spudorato senso del gioco. Dai materiali nati dalle improvvisazioni degli attori i due artefici hanno ritagliato e montato una struttura di rigorosa precisione, che poco spazio lascia ai cliché che inevitabilmente si accompagnano a questo mondo marginale. Giocando anzi d’anticipo sull’eccesso, cioè su un colorato strato superficiale che rende così più visibile (e non eludibile) quello che sta sotto.
Gardenia parla dell’identità fuori dagli stereotipi, della fragilità di qualsiasi identità. Il dolore e la solitudine, le speranze e le illusioni che ci raccontano sono quelle di tutti. No, non sono dei simpatici freaks che rincorrono i ricordi di una vita en travesti. Sono lo specchio con cui sempre il teatro ci dice qualcosa di noi.
Sembra invece chiudere una ideale trilogia lo stupendo Out of context che reca accanto al titolo la dedica alla signora di Wuppertal – “for Pina”. Omaggio non rituale a colei che maggiormente ha rivoluzionato la scena teatrale degli ultimi trent’anni, scomparsa da poco più di un anno. Come nella classicità contaminata di vsprs, come nella passione contemporanea di pitié!, anche questa più recente creazione di Platel porta sulla scena un piccolo cosmo umano disarmonico e sgraziato, un’umanità disturbata che sembra potersi esprimere solo attraverso gesti malati. Spasmi e smorfie, passi sbilenchi. Si sono spogliati dei propri abiti, i nove interpreti, dopo essere saliti sulla scena, uno alla volta, dalla platea dove stavano seduti – gesto simbolico fortissimo, l’atto di spogliarsi della propria immagine quotidiana. Si sono buttati sulle spalle un manto porporino che si tireranno dietro per tutto lo spettacolo, facendone via via un telo da spiaggia o un personale sipario, più spesso la rassicurante coperta in cui rifugiarsi. Hanno preso ad annusarsi come animali, si muovono anche con passi che richiamano una sfera animale dell’esistenza, qualcosa di primordiale che emerge dall’involucro della cultura.
I piedi strisciano per terra, sul nudo palcoscenico delle Fonderie Limone. Le diverse parti del corpo sembrano rigidi segmenti soggetti a leggi proprie e non a una generale armonia. Le braccia salgono a formare un cerchio. Una mano si ferma sul volto e poi scivola verso il basso, in un movimento che tornerà anche nel seguito. Si piegano a terra, finiscono sdraiati. Uno cammina in punta di piedi, porgendo un microfono che rende sonori i movimenti dei compagni. Una strana danza fatta di movimenti spastici, di contorsioni. Quando da lontano sale una musica e riconosciamo la Passione di Bach, pare di ritrovarsi in un territorio conosciuto. Dove il sublime incrocia quella sorta di degradazione e ne cambia il segno. Più avanti sarà un’aria di Vivaldi, Sposa son disprezzata, a cercare un spazio drammaturgico nello sviluppo dell’azione. Da sempre la danza, il teatro nel lavoro di Platel nascono dalla musica. Il Vespro di Monteverdi adombrato nel titolo di vsprs; una trascinante aria bachiana in pitié! o nel precedente Iet op Bach, però rotta da sonorità zingare e pop.
Non così qui. Quei corpi stravolti in cui pure sempre più ci riconosciamo, quei passi danzati che sembrano deridere un’idea di coreografia “ben fatta” non accettano altro che quel sordo rumore di fondo attraversato da muggiti, pianti di bimbi, grida d’uccelli. Quando nella bellissima sequenza centrale un sottofondo ripetitivo di musica elettronica detta una parvenza di ritmo, sono gli stessi interpreti a farsi la propria colonna sonora, pescando a turno nella memoria brandelli di canzoni, da Boy George a Barbie girl, o cantando in playback con la voce di Cheb Khaled. Prima di fare di nuovo silenzio e tornare ad avvolgersi in quelle coperte color zafferano che li fanno d’improvviso simili a monaci buddisti. Immobili. E allora uno di loro chiede al pubblico di alzare la mano destra e di danzare con lui. Komm tanz mit mir, vieni danza con me – era il titolo di uno spettacolo di Pina Bausch. Il cerchio si è chiuso.
Impercettibilmente, quasi a nostra insaputa, Platel ci ha portato davvero “fuori contesto”. Fuori dal territorio in cui erano nati i suoi primi spettacoli e dal loro contesto (umano, sociale, culturale…), verso una zona di attenzione al corpo come veicolo emozionale. In quella silenziosa immobilità si alza la voce di Sinead O’Connor, Nothing compares 2U. Poi lentamente vanno verso il fondo e rivestono gli abiti che avevano lasciato lì. Ridiscendono nel buio della sala da cui erano usciti. But nothing I said nothing can take away these blues. E non so dire perché quel vecchio hit, in quel momento, possa commuovere così. ’Cause nothing compares, nothing compares to you.
Gardenia e Out of context – for Pina alle Fonderie Limone di Torino, novembre 2010.
© gianni manzella