• Lo spettro di Amleto. Materiali per una introduzione alla drammaturgia del Nuovo teatro

    1. Contro la rappresentazione

    Un teatro che non parla più? O ancor di più: un teatro contro la parola? Un pregiudizio antitestuale sembra venire addebitato a lungo al nuovo teatro che nasce negli anni Sessanta del Novecento. Il nuovo teatro che ha il volto del Living Theatre o di Carmelo Bene si identifica nel gesto o nell’urlo, in quanto opposti alla parola, secondo la lettura che ne dà Pasolini verso la fine del decennio. E la scoperta ancora recente di Antonin Artaud può far prefigurare un teatro capace di attaccare direttamente i sensi dello spettatore con un “linguaggio di suoni, di grida, di luci, di onomatopee”.

    Non senza qualche motivo. Non mancano in quel momento teorizzazioni radicali che vorrebbero la scrittura scenica, forma espressiva del nuovo, del tutto avulsa da qualsiasi contaminazione con un testo drammatico. E sembrano prendere corpo in uno spettacolo simbolo qual è Mysteries and smaller pieces che va apertamente nella direzione non solo della negazione di un testo drammatico ma dello stesso fatto teatrale. La prima “creazione collettiva” del Living spazza via d’un colpo tutte le residue convenzioni del teatro tradizionalmente inteso. La scena del tutto nuda; l’assenza di sipario; gli attori mescolati al pubblico, con gli abiti di tutti i giorni; una sequenza di scene staccate l’una dall’altra e prive di un contenuto narrativo; la presentazione al pubblico di esercizi di training degli attori. In maniera quasi derisoria, ma in realtà con un gesto volutamente politico, il testo verbale che viene declamato è quello della banconota da un dollaro. Ciò che oggi può apparire consuetudine si impone in quei primi anni Sessanta come la rivoluzione di un teatro che elimina la finzione e mette al centro la presenza dell’attore.

    Una tensione, quella antitestuale, che prende forza anche dal rapporto stretto con le arti visive, dalla provenienza stessa di taluni artefici, come Mario Ricci, da un ambito legato a esperienze visive o performative. E sulla scia di esperienze legate prevalentemente alle arti visive, nel decennio successivo, quando già si va affievolendo la spinta antagonista del nuovo teatro, ecco infatti farsi avanti sulla scena romana un “teatro immagine” programmaticamente fondato sul primato dell’immagine sulla parola; che trova una sponda, a livello internazionale, nell’affermarsi dei fascinosi paesaggi teatrali di Robert Wilson. Non solo come scelta stilistica ma anche come modello di costruzione dello spettacolo. Lo spettrale Pirandello chi? di Memé Perlini è, già dal titolo che irride il drammaturgo siciliano, un vero e proprio manifesto di un teatro che vuol fare piazza pulita di una drammaturgia di matrice letteraria. Del testo dei Sei personaggi pirandelliani sono rimasti nello spettacolo di Perlini solo i brandelli di qualche battuta e il fantasma di qualche personaggio che emergono negli spazi che i giochi di luce ritagliano nel buio della scena.

    E invece no. E non solo perché gli inizi di quello che ancora non si chiama “nuovo teatro” sono ancorati a un teatro legato alla parola, con una chiara preferenza per la drammaturgia contemporanea, se vogliamo prendere come spartiacque quel 1959 in cui Carmelo Bene debutta da attore con un testo di Camus, Claudio Remondi si rivolge a Ruzante, Carlo Quartucci si appresta insieme a Leo de Berardinis a mettere in scena Samuel Beckett, Jerzy Grotowski fa le sue prime prove in Polonia e dall’altra parte dell’oceano il Living Theatre newyorkese di Beck e Malina traduce a suo modo il Pirandello di Questa sera si recita a soggetto e arriverà in Europa di lì a poco con due testi di autori contemporanei, The Brig e The Connection, proprio sulla scorta della scoperta di Artaud. Non diversamente vanno insomma le cose per il nascente nuovo teatro italiano e per le esperienze che fondano le neoavanguardie teatrali fuori dai confini nazionali.

    (Il 1959 è anche l’anno di À bout de souffle, il primo film di Jean-Luc Godard, e vale la pena ricordarsene giacché il regista della nouvelle vague è stato l’uomo di cinema più capace di fare “teatro” con la macchina da presa, tanto da poter essere assunto a correlativo cinematografico del nuovo teatro).

    O forse gli inizi vanno spostati avanti di un anno, a quella fatidica estate 1960 in cui si consuma, anche sulle piazze, con i morti di Sicilia e Reggio Emilia e lo sciopero generale che da Genova dilaga nel nord Italia travolgendo il governo Tambroni sostenuto dalla destra neofascista, lo scontro non solo fra due formule di governo ma fra due idee del paese e della sua democrazia. Una nuova generazione si affaccia sulla scena (non solo quella teatrale). L’Italia del boom, l’Italia che si prepara a celebrare il centenario dell’unità, si scopre una delle prime economie mondiali e si accredita sulla scena internazionale con il successo delle Olimpiadi di Roma.

    Proprio se si va a guardare dentro al decennio che in maniera più decisa e antagonista mette in discussione una concezione letteraria del teatro, in alcuni dei suoi momenti più significativi, è allora che risulta evidente la dialettica che il nuovo teatro mantiene con il testo drammatico assunto quale materiale verbale di partenza. È Carmelo Bene che seppure in maniera dissacratoria (così viene quasi unanimemente letto il suo teatro) già si misura con quell’Amleto che, da Shakespeare a Laforgue, resterà un costante termine di confronto nel suo percorso artistico. È Grotowski che cala il Principe costante di Calderón nelle forme di un “teatro povero” o fa dell’Akropolis di Wyspiański la perifrasi poetica di un campo di sterminio, mentre l’altro grande polacco, Tadeusz Kantor, si applica al prediletto Witkiewicz. È il Living Theatre che legge la tragedia di Antigone attraverso Brecht. Sono Leo e Perla che debuttano con due faticose reinvenzioni shakespeariane. Sembra difficile scorgere in quelli che si costituiscono come atti fondativi di una nuova stagione teatrale l’odio per la parola che il dogmatismo pasoliniano attribuisce al “teatro dell’urlo o del gesto”.

    Alla luce di queste prove, assumono una diversa luce anche spettacoli come Mysteries and smaller pieces che non a caso gli attori del Living presentano mentre intanto preparano però Le serve di Genet. Al di là della casualità da cui traggono origine (cioè dalle motivazioni pratiche prima che estetiche che spingono a una rarefazione del testo verbale), i Mysteries rappresentano un momento di sperimentazione alta in un percorso che attraverso la scrittura di Frankenstein porterà a Paradise now, ma non costituisce un punto di non ritorno che precluda a Beck e Malina di affrontare un testo del canone drammatico.

    Non fa dunque questione l’uso o meno di un testo drammatico, né il grado di fedeltà o al contrario di decostruzione del testo drammatico – dicono questi esempi. Ciò che si vuole fortemente affermare in quel momento è l’autonomia del teatro, la responsabilità dell’artista di teatro, attore o regista, in quanto autore del fatto scenico. Contro la rappresentazione. Ciò che si rifiuta è il riconoscimento di un’autorità scenica al drammaturgo. E dunque, come conseguenza, che il teatro si riduca a rappresentazione dell’opera letteraria.

    È un’affermazione che non nasce certo con le neoavanguardie degli anni Sessanta, ma che trova qui per la prima volta conferma definitiva. Se resiste per tutto il Novecento il pregiudizio del teatro come letteratura drammatica, su cui domina il drammaturgo che (dall’esterno) determina la rappresentazione – tanto da potersi egli opporre a produzioni che non rispettino la letteralità dei propri testi, il diritto all’integrità è tutelato dalla legge sul diritto d’autore – è altrettanto vero che dall’inizio del secolo il teatro afferma la sua autonomia come fatto artistico: i materiali verbali acquistano sostanza in quanto sono collocati nello spazio fisico del teatro. È Gordon Craig che per primo, all’inizio del secolo, pone in maniera radicale la questione di tornare a fondare il teatro sulle proprie specifiche radici linguistiche: siamo ben oltre il concetto della regia interpretativa del testo professata da Stanislavskij.

    Si tratta in qualche modo di un ritorno alla tradizione autentica del teatro, quella che vede il teatro nascere e vivere sul palcoscenico, quello del Globe londinese su cui si esibivano i players di Shakespeare non diversamente dal palchetto dei comici dell’arte. In questo senso, l’anomalia è il teatro borghese di matrice letteraria, e le avanguardie novecentesche si pongono allora come ripristinatrici di una sana tradizione: per Artaud la questione è risalire alla dimensione originaria del teatro, la scena deve farsi portatrice di un linguaggio tale da raggiungere direttamente i sensi dello spettatore.

    2. Fra scena e testo

    Quando ha inizio la “letteratura teatrale”? O parallelamente: in quale momento il drammaturgo, inteso come autore del testo drammatico, si sente elevato al ruolo di autore del teatro tout court? Shakespeare scrive sulla e per la scena, la pubblicazione dei copioni avviene a distanza di tempo da quando sono andati in scena. Anche Molière è, ai suoi tempi, prima di tutto attore, così come i comici dell’arte da cui nasce il suo teatro. Ancora per l’attore dell’Ottocento i testi di Shakespeare sono sovente dei copioni ampiamente manipolabili (viene anche da qui l’interesse per il grande attore ottocentesco manifestato da Leo de Berardinis e Carmelo Bene). La grande borghesia ottocentesca che del teatro ha fatto un rito sociale, basta leggere Proust, va a vedervi l’attore, anche se proprio in quei frangenti va nascendo l’idea di regia.

    L’attenzione per la filologia, per il rispetto del testo, sembra dunque potersi legare all’avvento del dramma borghese. E non manca una possibile motivazione economica. L’autore teatrale non è più una figura romantica ma diventa il produttore di un bene di cui resta proprietario (si comincia infatti a parlare di diritto d’autore, la Convenzione di Berna ispirata da Victor Hugo che fissa le prime regole a livello internazionale è del 1886), a tutti gli effetti inserito nel sistema produttivo (e dunque nell’ideologia) borghese – se pur con l’aura dell’arte. Il testo diventa un “valore”. Ne derivano due conseguenze: il testo si identifica con “il teatro” (di cui lo spettacolo è considerato una realizzazione, per taluni inevitabilmente difettiva) e l’autore in quanto proprietario del testo ha l’ultima parola sul suo uso (non manipolabile, tanto per Beckett quanto per Strehler come “erede” di Brecht).

    La rivoluzione registica che si produce fra fine Ottocento e inizi del Novecento e il successivo irrompere sulla scena delle avanguardie storiche rimettono in discussione questo assunto, nel senso che mirano a ristabilire l’autonomia del fatto teatrale; ma non scalfiscono l’autorità (l’autorialità) del drammaturgo, né il posto privilegiato del testo drammatico, di cui il regista si pone come interprete fedele, maieuta di una verità che gli è intrinseca (Stanislavskij rispetto a Čechov, Strehler rispetto a Brecht). Nei casi più avanzati, il regista si propone come autore del testo-reso-spettacolo, a volte a motivo di ciò in polemica con l’autore primo (è quel che avviene con Harold Pinter che nel 1973, dopo aver visto lo spettacolo, blocca le repliche dell’allestimento di Tanto tempo fa realizzato da Visconti con Umberto Orsini, Adriana Asti e Valentina Cortese).

    Quando negli anni Sessanta la scrittura scenica si impone come forma sintattica specifica del nuovo teatro, cioè come la forma in cui si afferma l’autonomia del fatto teatrale dal testo drammatico, ha già dietro di sé una lunga storia. Ciò che in primo luogo sembra caratterizzare questa modalità è una minorazione del testo quale valore primario. Il testo viene assunto non più in quanto valore in sé, da disvelare, ma per il suo valore d’uso, per quel che per suo tramite l’artista di teatro può esprimere. Per tale motivo qualsiasi testo “va bene” (poema cavalleresco, testo filosofico o scientifico, romanzo, copione cinematografico, campionatura di testi diversi ecc., si veda la totale indifferenza per il testo fonte nel primo decennio creativo di Carmelo Bene), la teatralità essendo quel “più” che dà il teatro (come insegna la formula di Barthes, la teatralità è il teatro meno il testo – dunque: un teatro col segno meno).

    Si accentua in tal modo una divaricazione rispetto a una linea registica più allineata sulla linea principale della tradizione novecentesca di matrice stanislavskiana che mira alla interpretazione del testo, a una sua chiarificazione/comprensione (anche nella forma di una regia “critica” che supera il naturalismo imperante nel dramma borghese), qual è ancora quella rappresentata nell’Italia di quegli anni da Strehler o Visconti.

    All’interno della scrittura scenica del nuovo teatro si manifestano essenzialmente due linee di operatività, entrambe non assimilabili alla “rappresentazione” intesa come illustrazione del testo drammatico:

    – una scrittura drammaturgica sviluppata a partire da un testo predefinito (non necessariamente però un testo drammatico);

    – una scrittura che nasce essenzialmente sulla scena come montaggio di materiali eterogenei, verbali e non verbali, accumulo di “testi” anche non letterari (tratti dal cinema, dalle arti visive ecc.), frutto ad esempio di improvvisazioni o dell’apporto degli attori – parleremo sovente in questo caso di “creazione”.

    In entrambi i casi l’artista di teatro interviene sul testo drammatico eventualmente presente con un’azione che mette in crisi l’impianto autoritario dell’autore. Indicheremo nel seguito questa azione con il termine minorazione.

    Va precisato che i confini fra queste due modalità operative sono assai fluidi, non vanno intesi in maniera rigida o peggio ancora prescrittiva. Né esiste una reale differenza nella pratica se ad agire sia una figura specificamente registica o un attore che abbia assunto su di sé la responsabilità della creazione, e quindi inevitabilmente anche una funzione registica, per quanto sulla scena italiana queste due figure si siano poste talora in polemica l’una con l’altra. Un testo di base può sbiadire nel corso del processo creativo, mischiarsi con altri materiali; un artista può agire diversamente di volta in volta, a seconda delle occasioni. Emblematico, per fare un esempio, è il caso di un regista creatore come Federico Tiezzi che viene dalle esperienze analitiche (e sostanzialmente estranee alla parola) della cosiddetta post-avanguardia degli anni Settanta: le multiple esperienze testuali compiute a cavallo fra i due decenni successivi attraversano partiture scritte in prima persona all’insegna di un teatro definito di poesia (la trilogia Perdita di memoria), la riscrittura poetica delle tre cantiche del poema dantesco per opera di tre poeti contemporanei, un testo teatrale non drammatico (Hamletmaschine, una “tragedia postuma” che racconta il sentimento dell’impossibilità di rappresentare il suo classico archetipo), la rielaborazione di romanzi (Sulla strada, Come è), una straordinaria appropriazione della carnale lingua di Testori accanto ai più prevedibili ma non meno riusciti studi sull’Amleto shakespeariano, passando anche per uno spettacolo muto dedicato ad Artaud. (Ma si tratta di una prassi consolidata della regia contemporanea anche a livello internazionale, se si pensa a registi eclettici come Marthaler, Hermanis, Vasil’ev, Nekrosius… dove fra l’altro è frequente la presenza di un dramaturg a fianco del regista). Bisogna forse immaginare questa operatività come una nube atomica, nel senso della chimica molecolare, dove un artista di teatro può trovarsi a un dato istante probabilisticamente in una certa posizione, ma è dotato dell’energia necessaria per passare in un altro momento in una diversa posizione.

    Più che a una polemica ormai stantia fra teatro d’attore e teatro di regia, conviene forse guardare ad altri possibili modelli interpretativi.

    3. L’ingegnere e il bricoleur

    In una pagina del Pensiero selvaggio, Claude Lévi-Strauss parla dell’ingegnere e del bricoleur come paradigma di due diversi modi di produzione, anche intellettuale. L’ingegnere è colui che subordina la realizzazione del proprio progetto al possesso degli arnesi appropriati; il bricoleur è colui che esegue un lavoro con le proprie mani, usando anche mezzi diversi da quelli dell’uomo del mestiere.

    La regola del gioco del bricoleur è di adattarsi agli strumenti che possiede, un insieme di mezzi o strumenti che non è in rapporto con il progetto del momento (o con qualsiasi altro progetto in particolare) ma è il risultato di una serie di relazioni o di occasioni che si sono presentate nel tempo. Arnesi che il bricoleur ha raccolto e conservato perché “possono sempre servire”. Bartolucci ha parlato una volta di teatro d’occasione.

    Per mettersi all’opera il bricoleur parte sempre da una sorta di inventario dei materiali di cui dispone: si potrebbe dire che opera una sorta di riuso di quei materiali, o dei residui dei materiali primari. L’arte (teatrale) del bricoleur è combinatoria, è determinata cioè dalla scelta operata fra i materiali di base, e questa scelta parla sempre di chi la compie. Il bricoleur mette sempre qualcosa di sé in quello che fa ovvero, detto in altre parole, l’opera del bricoleur è sempre autobiografica.

    A teatro, un geniale bricoleur è stato Carmelo Bene. Ma una larga parte del teatro che nasce in quegli anni e che abbiamo imparato a chiamare nuovo teatro può essere ricondotta all’interno di questo paradigma. Lì portano i caratteri che abbiamo appena ricordato: uso di materiali eterogenei, adattati al bisogno del momento; indifferenza rispetto alla qualità dei materiali utilizzati; forte presenza dell’artista all’interno dell’opera, e dunque sottolineatura dell’aspetto autobiografico all’interno del lavoro…

    Un esempio appropriato di “ingegnere” nel campo della creazione teatrale è invece ravvisabile nella figura di un regista marcatamente intellettuale quale Massimo Castri (del quale non va comunque dimenticata, in origine, l’esperienza di attore che gli ha fornito una conoscenza concreta e “sul campo” del fare teatrale). Significativo in questo senso è il lavoro di scavo svolto intorno a Pirandello e Ibsen, analizzati come esponenti di un teatro post-borghese. I taccuini riempiti dal regista, poi in parte pubblicati, testimoniano in maniera esemplare il lavoro preparatorio svolto sui testi scelti per la messinscena, per portarne alla luce i contenuti latenti.

    All’opposto un esempio attuale di artista bricoleur può essere facilmente riconosciuto in Pippo Delbono. Il teatro dell’artista ligure prende occasione da tutto ciò che trova per strada: un incontro, un libro letto per caso, il titolo di una canzone, un’immagine televisiva, un evento privato come la morte della madre… Ciò che risulta fondamentale nell’esperienza di Delbono come artista bricoleur è la memoria intesa come luogo in cui si accumulano i materiali raccolti, pronti per essere tirati fuori all’occasione.

    Poiché per statuto dell’artista bricoleur tutti i materiali drammaturgici hanno uguale peso specifico, quel che conta è solo come quei materiali funzionano sulla scena. C’è infatti da parte dell’artista una sorta di indifferenza tanto per il genere (un brano musicale vale quanto un testo letterario) quanto per la loro eventuale qualità culturale (una canzone popolare vale quanto l’aria di un’opera lirica o un brano di musica barocca). Cultura alta e bassa possono stare fianco a fianco. Anzi a volte è proprio la commistione di alto e basso, una sorta di dialettica degli opposti, a funzionare teatralmente, come già avevano sperimentato Leo e Perla nella loro discesa al sud di Marigliano.

    Inevitabilmente, da queste premesse, deriva l’indifferenza dell’artista bricoleur per il testo drammatico in quanto oggetto della messinscena; e viceversa il montaggio di materiali drammaturgici diversi come forma privilegiata della creazione. Per un artista come Delbono il testo in quanto tale non può che essere un oggetto di recupero al pari di altri materiali. Riemerge per frammenti o bagliori da quella sorta di personale magazzino in cui è depositato, come il monologo di Giulietta che appare a sorpresa in uno spettacolo come La menzogna, nato da tutt’altro contesto.

    Vale la pena osservare a margine che l’esperienza dell’artista bricoleur qui delineata non va intesa in termini diminutivi rispetto a quella dell’artista ingegnere quanto a sapere professionale. Ciò che è in questione è come e quanto di un sapere professionale è messo al servizio della creazione, comunque questa poi si sviluppa.

    Quale che sia l’operatività dell’artista di teatro in quanto autore dell’evento scenico, sia che egli operi da regista o da attore con gli strumenti dell’ingegnere o del bricoleur, tuttora si confronta in generale con una permanenza dell’elemento verbale. Vuol dire che un testo, inteso come materiale verbale, è ancor oggi alla base della scrittura scenica nella maggior parte delle creazioni teatrali. Può essere

    – un testo drammatico vero e proprio, cioè scritto per essere recitato su una scena, dove in generale prevale la forma dialogata;

    – un testo “secondo” che un dramaturg, spesso lo stesso creatore dell’evento scenico, ha tratto da un testo drammatico preesistente (quindi “da” e non più “di”);

    – un testo di per sé non teatrale (romanzo, sceneggiatura cinematografica, epistolario, materiale poetico ecc.), adattato per essere parlato sulla scena;

    – un montaggio di brani tratti da testi di origine diversa, ad esempio diversi autori;

    – un testo che prende forma durante il processo creativo dello spettacolo (passando anche per improvvisazioni, momenti di laboratorio, prove, studi ecc.), talora elaborato in forma collettiva.

    Ciò che è comune in tutti i casi è il fatto che il materiale verbale ha perso ogni carattere autoritario. L’evento teatrale non ha per scopo l’illustrazione scenica di un testo, qualunque esso sia; come si è detto, esso assume piuttosto un valore d’uso, in quanto utilizzato a supporto della creazione teatrale.

    Per avere un riscontro concreto di come si manifesti questa operatività, conviene rifarsi allora ai due artisti che in maniera più marcata hanno contrassegnato la nascita e lo sviluppo del nuovo teatro italiano, dal punto di vista che convenzionalmente riconduce all’esperienza del regista e dell’attore ma che li connota entrambi come creatori: Luca Ronconi e Carmelo Bene.

    4. Chi è là? Ronconi e il caso Orlando furioso

    Sul finire degli anni Sessanta del XX secolo uno strano spettacolo deflagra nelle piazze e in altri spazi poco abituali al teatro. L’Orlando furioso che Luca Ronconi mette in scena dal poema dell’Ariosto, con il contributo drammaturgico non secondario del poeta Edoardo Sanguineti, rappresenta in quel momento una vera e propria rivoluzione teatrale, pur sullo scorcio di un decennio non avaro di momenti di rottura sulla scena nazionale, testimoniati dal convegno che un paio d’anni prima, a Ivrea, aveva dato voce e una sorta di ufficialità al Nuovo teatro (qui la maiuscola è d’obbligo). L’uso di un testo non tratto dalla letteratura drammatica. Il montaggio delle scene operato dal regista, che avvicina lo spettacolo al concetto di “opera aperta” teorizzato in quegli stessi anni in campo letterario, laddove cade ogni possibilità di interpretazione autoritaria. La simultaneità delle azioni che si sviluppano su carrelli mobili in mezzo al pubblico. L’emancipazione da una visione frontale e anzi la moltiplicazione dei punti di vista. La dialettica di straniante epicità del testo e di fascinazione emozionale della rappresentazione. Il risveglio dell’attenzione dello spettatore, sottratto alla passività della poltrona di platea e immesso in una situazione di pericolo che lo costringe letteralmente a prendere posizione. Ce n’è abbastanza per sorprendere anche i più smaliziati.

    L’Orlando furioso può essere considerato a buon diritto uno spettacolo manifesto che enuncia e mette alla prova, tutti insieme, temi e caratteri ripresi e variati in più modi nella successiva attività del regista, ma destinati a diventare ben presto patrimonio collettivo. Il suo valore di paradigma si estende però ben al di là dell’esperienza di Ronconi. Esso permette cioè di leggervi in trasparenza una larga parte delle esperienze drammaturgiche del nuovo teatro. A partire dall’indicazione che un altro teatro è possibile.

    Nel momento in cui Ronconi mette al centro del suo progetto registico un testo, innesca una perdita dell’aura del concetto stesso di testo. A cominciare dall’uso di spazi e testi non canonici (nel senso che Harold Bloom dà al termine canone). Da un lato, possono essere il vecchio deposito di scene e costumi della Scala, alla Bovisa di Milano, o un tratto del rinascimentale corso Ercole d’Este, a Ferrara, lastricato di specchi; dall’altro, romanzi come I fratelli Karamazov o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, racconti e libri di memorie, saggi sull’economia e la finanza o la bioetica, la sceneggiatura cinematografica di Lolita scritta da Nabokov ma non utilizzata da Kubrick per il suo film, scritture fuori formato per così dire, dagli esorbitanti Ultimi giorni dell’umanità che Karl Kraus, l’autore, diceva concepiti “per un teatro di Marte” al labirinto scientifico di Infinities

    Luca Ronconi è regista di testi, e a essi rigorosamente fedele, in un teatro però dove il dialogo e i personaggi non sono più i soli cardini della drammaturgia e dunque sbiadisce anche la fabula, l’azione intesa in senso drammatico che il teatro può al massimo rivivere; è sull’invenzione teatrale che si fonda e cresce la sua personalità. Sulla teatralità, se si assume la celebre formula di Roland Barthes per cui la teatralità è il teatro meno il testo. Paradossalmente (ma non tanto) Ronconi mette in opera una strategia di minorazione del testo che è leggibile già nella scelta di preferire, anche quando si rivolge alla letteratura drammatica, autori minori o del tutto sconosciuti. Shakespeare, certo, ma ancor più gli altri assai meno frequentati elisabettiani; non Molière ma i comici dell’arte come Giovan Battista Andreini, figlio della celebre Isabella, la prima diva della scena italiana, tratto fuori dalla ristretta cerchia degli specialisti del teatro barocco; semisconosciuti autori del Settecento o del primo Novecento tedesco… (ma stanno tutti nelle biblioteche, postilla il regista). Da lì parte poi la ricerca dello spazio in cui il testo chiede di essere messo in scena, dei gesti e dei suoni che se ne impossessano passando per i corpi e le voci degli attori usciti dalla sua scuola – giacché Ronconi è stato in tutti questi anni anche uno straordinario pedagogo. E che il setaccio della teatralità faccia il resto. Alla fine di questo processo di appropriazione da parte del teatro, il testo tende a ritrarsi sullo sfondo dello spettacolo, a perdere il proprio valore prescrittivo così come l’autore ha visto disconosciuta (da tempo) la propria autorità scenica; sbiadisce, il testo, tende a farsi trasparente, a ritrarsi sullo sfondo dello spettacolo. Fino a farsi come uno spettro che aleggia sui bastioni dello spettacolo. Che come lo spettro di Amleto chiede (invano) di essere vendicato. Chi è là?, chiede lo spettatore, ma già è spinto via verso altri luoghi.

    Non ricorderemo Ignorabimus per le parole del dimenticato Arno Holz (di cosa parlava, già?) ma per le nove ore trascorse insieme alle cinque grandissime attrici che le hanno incarnate, con maschere e abiti maschili, chiusi noi e loro nel bunker di cemento cresciuto all’interno della struttura teatrale, il Fabbricone di Prato… Così come il ponderoso dramma di Karl Kraus che pure si era letto voracemente prima di mettersi in viaggio per Torino, Gli ultimi giorni dell’umanità, si frantuma all’interno delle officine del Lingotto nella miriade di percorsi che lo spettatore è libero di intraprendere, costruendo da sé il proprio montaggio dello spettacolo (con un salto anche rispetto al “montaggio delle attrazioni” teorizzato da Ejzenštejn), sicché si comprende quanto affermava Walter Benjamin in un bellissimo saggio su Kraus (lo si legge in Avanguardia e rivoluzione), che quel che egli scrisse è un “silenzio rovesciato”.

    5. Il teatro per Bene

    Anche Carmelo Bene, al pari di Luca Ronconi, attinge per la costruzione dei propri spettacoli a testi di origine assai diversa, senza escludervi nel suo caso i capisaldi del canone occidentale, i capolavori shakespeariani. Ma accanto a questi, compaiono testi drammatici a torto o ragione considerati minori, romanzi, un libro per l’infanzia, per finire con la scrittura in prima persona di Nostra Signora dei Turchi, che trascorre dalla pagina alla scena e alla reinvenzione cinematografica, per tornare poi di nuovo in scena in una seconda versione… Con una indifferenza che si manifesta soprattutto nel frenetico affastellarsi delle prove degli anni Sessanta del suo avvento romano, al teatrino di vicolo del Divino Amore, nel trascorrere da Majakovskij alla Manon dell’abate Prevost e dagli amati elisabettiani a Pinocchio, con quel gusto barocco per l’immagine di cui resta una traccia nella manciata di film girati in pochi anni. Spettacoli letteralmente buttati via, quelli del primo Carmelo Bene, perché quel che contava già allora era il teatro che l’artefice incarnava sulla scena. Il teatro non lascia “opere”. Il teatro è nell’atto, nell’immediato. Ma che trova ancor più radicale conferma, questa indifferenza, nel momento in cui l’attenzione dell’artista si concentra su un numero sempre più limitato di situazioni (siano esse testi o figure della letteratura) che però si offrono come pre-testo per gli eterni ritorni.

    Teatro e non rappresentazione, certo. Ma quella non c’è mai stata. Nemmeno al tempo in cui “toglie di scena” Shakespeare nel chiaroveggente intervallo fra veglia e sonno. Una vera e propria cura di rianimazione del teatro e dello spettatore, col viatico di (anzi “da”) Shakespeare. Ecco la funerea evocazione di Romeo e Giulietta fra i calici di una smisurata tavola imbandita. La sfida di Riccardo III a un coro femminile che lo soffoca di sensualità. L’Otello riverso sul letto dove tutto è già accaduto, dove il Moro impallidisce a contatto di un vampiresco Jago, e non può dunque che continuare a uccidere Desdemona: “Conviene che tu muoia di tanto in tanto”. Da ultimo il Macbeth rimasto solo con la sua Lady nella camera da letto che rimbomba dei colpi della storia.

    È che già allora era ben chiaro che la rappresentazione è proprio finita, che non c’è più niente da interpretare. Niente da descrivere e da disquisire, niente da moralizzare. Shakespeare o Musset poco importa. È solo un inservibile copione. Ogni gesto è diventato inutile. La vicenda è conclusa, si può solo continuare a sognarla, riviverla in una funerea veglia alcolica. Il gesto è dato, è detto. Si tratta di raggiungerlo, per l’attore che sta sulla scena: solo col suo agĕre. Come il protagonista del suo Lorenzaccio, che a metà degli anni Ottanta apriva un altro momento di straordinaria felicità espressiva. Una terza vita, la sua discesa nel silenzio.

    Di più, Carmelo Bene esclude in partenza qualsiasi tentazione extratestuale. O sottotestuale. Mette a forza di fronte all’abisso incolmabile che sta fra lo scritto e il parlato. Nel suo dire non c’è altra intenzione che il dire stesso. Quello che conta è il gioco del suono. Dove le parole si smarriscono. Ne resta la nostalgia e il desiderio. Attore e poeta sperimentano la lontananza, il distacco, l’oblio. Laddove la lingua si fa straniera. Teatro postumo è già allora quello di Carmelo Bene. Sempre più le sue apparizioni si rivelano testamentarie dichiarazioni di morte del teatro che celebrano sontuosamente il teatro proprio nel momento in cui lo negano.

    Eterni ritorni, si diceva. Per tutta la vita Carmelo Bene ha inseguito tenacemente i suoi eroi d’elezione. L’Amleto laforghiano che ha preso gusto all’opera, artista per vocazione e destino in fuga dalle strettoie della storia. Il burattino Pinocchio refrattario ai codici del mondo cosiddetto adulto. E l’enigmatico Achille che sembra un po’ racchiudere anche gli altri due, nel gioco della maschera guerriera con cui copre la propria indifesa umanità. Il burattino di Collodi resta l’alter ego elettivo per Carmelo Bene, per l’uomo di teatro geniale e per il personaggio pubblico che si diverte a gettare fumo negli occhi. Lo è nel gusto del gioco, della beffa che giustifica la predilezione dell’attore per un dimenticabile copione come La cena delle beffe di Sem Benelli che però gli consente di rilanciare la riflessione sull’azione impossibile, come nel romantico Lorenzaccio, come nell’Amleto parallelo della Hommelette for Hamlet. Se non si sapesse troppo bene che questo teatro “non si può più fare”, semplicemente si gioca a recitare.

    Ma non c’è dubbio che al fondo di tutto resti proprio Amleto. Se ne contano (almeno) cinque edizioni sulla scena, oltre alle versioni per il cinema e la televisione. Fino all’emozione estrema di quell’ultima Hamlet suite al teatro romano di Verona, ormai ridotta quasi all’immobilità sotto il disco rotondo della luna, piatto e giallo nell’ultima luce del tramonto.

    C’è un ultimo, apparente paradosso da segnalare a proposito del lavoro drammaturgico di Carmelo Bene. Mentre per Ronconi, che pure passa per un regista fedele ai testi che mette in scena, il testo esiste solo nell’atto della rappresentazione scenica – il resto è letteratura, si potrebbe dire – per Bene a un certo punto si manifesta un dopo in cui il lavoro drammaturgico può essere riconsegnato al libro. Colui che più di altri ha reso chiaro che il teatro non lascia “opere”, che il teatro è nell’atto, nell’immediato, si congeda con un volume di “opere” in cui ciò che era scrittura scenica torna a essere letteratura. Operazione concettualmente interessante almeno per due motivi, al di là dello svelare la pulsione dell’artefice a essere “autore” (cioè a durare nel tempo, oltre la morte, corrispettivo di quell’apparato funebre che accompagna tutto il suo operare). Da un lato il darsi nuovamente come scrittura letteraria, d’altro canto il dar così luogo a un materiale testuale che non esclude nuove possibili messinscene o rielaborazioni. Ecco infatti, in anni più recenti, il regista francese Georges Lavaudant mettere in scena con il titolo La Rose et la hache una propria ri-creazione da “Richard III” ou l’horrible nuit d’un homme de guerre di Carmelo Bene, come suona “la nottataccia di un uomo di guerra” nella traduzione di Jean-Paul Manganaro. Al di là dell’esito dell’operazione invero assai modesto, ciò che è interessante (da un punto di vista ideologico, si potrebbe dire) è proprio il fatto che la scrittura scenica di Carmelo Bene torna a essere materiale drammaturgico, con tutti i problemi interpretativi di un qualsiasi testo contemporaneo. Ma c’è un passo successivo, in prospettiva, finora solo occasionalmente pensato e tentato (si pensa a un recente rifacimento della Classe morta di Tadeusz Kantor da parte di Nanni Garella con un gruppo di ex degenti psichici). Che la “tradizione del nuovo” possa dare origine a un corpus di materiali drammaturgici reinterpretabili, trasformando in testo (non solo verbale) la scrittura scenica degli eretici maestri del Novecento.

    6. Tattiche della minorazione del testo drammatico

    È ora di vedere quali sono le tattiche attraverso cui si manifesta una minorazione del testo drammatico nel teatro contemporaneo che muove dalle esperienze del Nuovo teatro. Come si è affermato, un testo, inteso come materiale verbale, è ancor oggi alla base della scrittura scenica nella maggior parte delle creazioni teatrali. Ciò che è ben presente fin dalle origini del nuovo teatro è la consapevolezza che tale materiale verbale ha perso ogni carattere autoritario, giacché l’evento teatrale non ha (più) per scopo l’illustrazione scenica del testo.

    Le strategie con cui si attua questa minorazione sono diverse. In linea generale, quel che si produce è, se non una vera e propria cancellazione del testo, una tensione a una dissoluzione più o meno marcata del materiale verbale. Va tenuto presente che, oltre alla consapevole minorazione che si compie sul testo drammatico, anche la scelta di usare un testo non teatrale (poema, romanzo, saggio scientifico ecc.) equivale di per sé a una forma di minorazione, certifica cioè la non necessità del testo drammatico perché si abbia teatro.

    a. Cancellazione della fabula e del personaggio.

    È uno dei passaggi cruciali con cui si afferma la teatralità nel nuovo teatro e diventa un elemento costitutivo del teatro contemporaneo. Scompare l’identificazione fra l’attore e il personaggio, in quanto espressione di una psicologia. L’attore sembra assumere piuttosto una funzione di narratore esterno o di porta parola del personaggio, ne entra e ne esce come a togliere e mettere una maschera, sottolineando a ogni momento la finzione in atto. Fino ad andare in scena con il proprio nome, con una esplicita rivendicazione della propria biografia, come già insegnavano i Mysteries del Living Theatre e come afferma nel decennio successivo un programmatico De Berardinis Peragallo. E il nome dell’attore compare anche nel titolo di testi quali Ritter Dene Voss o il “ritratto dell’attore da vecchio” Minetti dedicato all’interprete preferito del suo teatro da parte dell’austriaco Thomas Bernhard. Biografia immaginaria naturalmente, alla Schwob, qual è quella inscenata dai due attori-naufraghi nel Ritratto dell’attore da giovane di Tiezzi, colti nel buio del tunnel che separa vita reale e fittizia. Ma la cancellazione del personaggio dissolve inevitabilmente anche la fabula, l’azione in senso drammatico. Esemplare da questo punto di vista è tutto il teatro di Carmelo Bene. Dove non ci sono personaggi ma, dichiaratamente, “situazioni”; e la vicenda (il dramma) si è già consumata, si è compiuta (nel testo). Il teatro non può che riviverla, in una funerea cerimonia di evocazione di un morto.

    Non è un caso che di questa negazione debba prendere atto anche l’autore drammatico, sia pure per cercare di riportarla all’interno di una scrittura teatrale tradizionale. Samuel Beckett già dal primo Aspettando Godot radicalizza un teatro dove “non succede nulla” qual è quello cechoviano, e passando per la pura gestualità di un “atto senza parole” approda negli ultimi testi a un beffardo profluvio di parole disincarnate, esemplificato nella Bocca senza corpo protagonista di Non io. “Io non sono Amleto”, dirà da ultimo il protagonista dell’Hamletmaschine di Heiner Müller, viaggio doloroso in mezzo ai fantasmi personali e collettivi che ancora popolano le “rovine d’Europa”, e nello stesso tempo, nelle sue poche ermetiche pagine, sberleffo rabbioso all’arte teatrale, testimonianza di una sfiducia irrimediabile verso le possibilità di comunicazione della scena. Dice il testo: “Il mio dramma non ha avuto luogo. Il testo è andato perduto. Gli attori hanno appeso i loro volti agli attaccapanni del guardaroba. Il suggeritore marcisce nella sua buca. In platea i cadaveri impestati, paglia imbottita, non muovono una mano”.

    b. Cancellazione/interruzione della continuità.

    Si dissolve lo sviluppo lineare, cronologico del “dramma”. Torna in mente quanto affermato in un’occasione da Godard, richiamato da un altro regista a riconoscere la necessità di avere nei film un inizio, un momento centrale e una fine: “certo, ma non necessariamente in quest’ordine”, fu la risposta. Spesso gli spettacoli si presentano nella forma frammentaria di studi, variazioni, “scene da” – lungo l’orizzonte di una poetica del frammento che attraversa la modernità. Mentre Leo de Berardinis, fedele al principio di un duplice livello di lettura, conserva nelle “variazioni” sulla Tempesta degli anni Ottanta bolognesi la possibilità per lo spettatore di ricostituire dalle “scene” la trama della tragedia shakespeariana. La cancellazione della continuità dell’azione rompe anche la continuità temporale, si instaura un diverso tempo proprio del teatro. Dove ogni scena vale di per sé, assume un valore autonomo, prevale lo straniamento prodotto da questa singolarizzazione. Una scena può essere ripetuta con attori diversi o sfrangiarsi fra attori diversi (avviene ad esempio in Itaca di Ronconi, nei Sei personaggi di Anatolij Vasil’ev, nella rielaborazione drammaturgica della kleistiana Caterina di Heilbronn proposta da Federica Maestri e Francesco Pititto di Lenz Rifrazioni…). Nelle Scene di Amleto Tiezzi sperimenta diversi “modelli” di messinscena uno a fianco dell’altro (addirittura evocando la storica messinscena di Gordon Craig che diventa a sua volta, in tal modo, materiale drammaturgico della scrittura scenica). L’interruzione della continuità si produce anche come frammentazione di un unico “progetto” in più tappe o studi, come insegnano i viaggi teatrali di Thierry Salmon attraverso i Demoni di Dostoevskij o la Pentesilea kleistiana. A un principio simile si ispira il percorso di Fanny & Alexander intorno ad Ada o ardore, un frammentario attraversamento del romanzo di Nabokov che non aspira a restituirne la totalità. Altre volte la frammentazione della struttura testuale lascia emergere delle tracce che lo spettatore può ricostituire a suo modo (Motus).

    c. Condensazione del testo in una sola voce/presenza.

    Ne sono paradigma le Baccanti del Laboratorio di Prato, laddove Marisa Fabbri a lume di candela conduceva gli spettatori attraverso le sale dell’istituto Magnolfi. Qui è fondamentale l’aspetto cerimoniale della rappresentazione, l’evocazione sciamanica della nascita della tragedia, altrimenti inattingibile. L’attore non si identifica con il personaggio (e nemmeno la somma dei personaggi) ma appunto è lo sciamano attraverso cui parlano i personaggi della tragedia. Non è un caso che questa sfida venga raccolta da un autore quale Heiner Müller (non estraneo a esperienze sceniche in prima persona) laddove offre all’interprete il suo a tratti impenetrabile Medeamaterial con cui dà voce contemporanea al mito antico e al tema ossessionante del tradimento – spostando deliberatamente sulla messinscena il problema di dare concretezza visiva e contenuto emozionale a questo “materiale”. Su un piano diverso, la stessa operazione si compie nell’onirico Hamlet – a monologue proposto da Robert Wilson, protagonista solitario di un dramma opprimente, in cui nulla è saldo, in confidenza con fantasmi e commedianti, che come si sa sono quasi parenti per tramite di quelle incorporee creature che sono i personaggi: come negli Shakespeare di Carmelo Bene, ancora una volta, qui siamo in prossimità della morte, o di una assenza di vita, siamo di fronte a una tragedia postuma in cui tutto è già compiuto. Ciò che appare rilevante è il fatto che non è in gioco una sorta di trasformismo mattatoriale dell’interprete ma una vera e propria spoliazione del testo d’origine capace di lasciarne allo scoperto la carne viva, come mostrava l’Amleto ridotto alla condizione di un bambino autistico, nella regressione infantile vissuta come unica forma di negazione dell’eredità mortale dei padri, in uno fra i più straordinari spettacoli di Romeo Castellucci e della Socìetas Raffaello Sanzio, all’inizio degli anni Novanta.

    d. Dilatazione spazio-temporale.

    Il dramma perde la propria “concentrazione”, si allarga nello spazio (fisico) e nel tempo (durata) fuori dai limiti convenzionale della sala teatrale e dalla visione puramente frontale costretta dall’arco scenico. Sulla scorta dell’Orlando furioso degli anni Sessanta, Ronconi sperimenta altre volte questo meccanismo, dagli Ultimi giorni dell’umanità allestiti nei vasti spazi del Lingotto torinese ai labirintici percorsi di Infinities per le stanze della Bovisa dove la Scala teneva i laboratori di scenografia e i costumi. Se nel primo caso l’ampiezza la vastità dello spazio in cui lo spettatore poteva muoversi liberamente lasciava a quest’ultimo una libertà quasi totale nel costruirsi il proprio spettacolo dalle diverse azioni inscenate contemporaneamente, anche alternando campo lungo e primo piano per stare a un linguaggio cinematografico, nel caso dello spettacolo per molti versi straordinario tratto dal canovaccio scritto per l’occasione dal matematico e cosmologo John Barrow la possibilità combinatoria era programmata dalla labirintica struttura cioè dalle cinque stanze dell’Albergo Infinito dove ogni scena ricominciava di continuo, per dieci volte ogni sera – ma non proprio uguale, attori diversi si alternavano in alcune scene, talora cambiava anche il numero degli interpreti; lasciando al singolo spettatore anche la possibilità, una volta giunto al termine del percorso, di rientrare nell’albergo insieme a un altro gruppo di spettatori. Ma si ricordano anche i passaggi dall’uno all’altro dei diversi spazi scenici delle Scene di Amleto create a Prato da Tiezzi, innestati in serie nel vasto hangar del Fabbricone. Un teatro che diventa l’involucro di un’altra struttura scenica che si è gonfiata fino a invaderlo e renderlo invisibile, formando un labirinto di cunicoli stretti e bassi, passaggi segreti, salite e discese su sentieri coperti di terra, è anche quello attraversato dagli spettatori di Hansel e Gretel della Societas Raffaello Sanzio. Effetto collaterale di questa dilatazione spazio-temporale è la rarefazione dell’attenzione dello spettatore (la sua libertà di distrarsi, si potrebbe dire), a favore di una maggiore libertà di montaggio interiore.

    e. Minorazione sonora.

    La dizione del testo perde la sua forma alta (quella per intenderci di Olivier, Gassman ecc.) ma viene degradata a una forma bassa, denobilitata, rumorizzata, attraversata da voci e pronunce straniere, o trasformata in musica, cioè utilizzando il testo per il suo valore sonoro piuttosto che il suo valore semantico. Un momento fondante si trova nella vera e propria partitura sonora scritta, con notazioni di tipo musicale, da Leo e Perla per il loro Sir and Lady Macbeth. Di “cubismo acustico” parla Ripellino a proposito dell’Orestea che Luca Ronconi presenta a Spoleto nei primi anni Settanta, nel senso di segmentazione delle frasi, di un’anatomia fonologica spinta al parossismo dalla scarmigliata Clitemnestra di Marisa Fabbri. Ne sono esempio anche l’Ubu africano dei Polacchi delle Albe, il Giulio Cesare della Societas Raffaelo Sanzio (che attacca proprio la “retorica” del testo) o le suites in cui si sciolgono musicalmente le ultime apparizioni di Carmelo Bene, che per altro ha fatto della phoné un cardine del proprio teatro.

    f. Commistione testuale.

    È quanto si produce mescolando testi e generi, cultura alta e cultura popolare, come avveniva già nelle prime prove di Leo e Perla a Marigliano, da ’O zappatore a King lacreme Lear napulitane, con la commistione fra Shakespeare e la sceneggiata napoletana. Gran parte del lavoro drammaturgico di Motus muove da una sorta di campionatura di testi diversi, spesso di origine non teatrale. Il risultato è spesso quello di portare in primo piano, al presente, il vissuto degli interpreti: le peripezie sentimentali degli attori come avviene nell’Otello cineteatrale di Teatrino Clandestino; la cultura teatrale dei mariglianesi che affiancano in quegli anni Leo e Perla. Il testo classico, o meglio quel che ne resta, perde così la sua aura, ciò che ne fa un oggetto artistico separato dalla vita/esperienza quotidiana, diventa uno specchio frantumato in cui lo spettatore può provare a riflettere il proprio volto. Bene legge Amleto attraverso Laforgue; Leo, nell’ultimo decennio del secolo, attraverso il corpo e la voce di Totò.

    g. Cancellazione del testo.

    È forse il punto terminale nel percorso di minorazione del testo drammatico. Il testo viene cancellato con un’operazione concettualmente analoga a quella messa in atto da Emilio Isgrò o Joseph Beuys nel campo delle arti visive: sulla pagina restano poche parole, isolate dal loro con-testo (è quanto avviene alla lettera in The Connection che Leo de Berardinis trae nominalmente dal lavoro di Jack Gelber, di cui conserva il titolo e un’unica battuta). Può avvenire rendendo straniera, incomprensibile, la lingua parlata sulla scena: è quello che fa Thierry Salmon scegliendo di usare la lingua greca antica per Le troiane di Gibellina (viceversa valorizzando l’aspetto sonoro della parola, fino a scioglierla nel canto con le musiche di Giovanna Marini), come già aveva fatto Andrei Serban un decennio prima con una rilettura della tragedia classica che evidenziava la forza sacrale della parola. Può avvenire ancora ostacolando fisicamente l’emissione della parola, come avviene nel Giulio Cesare della Societas Raffaello Sanzio, dove la “retorica” deve confrontarsi con vere e proprie forme di afonia o di mutilazione; la voce del protagonista viene fuori strozzata da un collare, deformata dal gas che l’attore aspira da una bombola, spostata verso le frequenze più alte fino a trasformarsi nel verso inconfondibile di Paperino, il disneyano Donald Duck – e alla fine destinata a soccombere di fronte alla quieta oratoria di un Antonio laringectomizzato. Al termine di questo processo di sparizione del testo drammatico c’è la sua dissoluzione in un altro testo, che si produce nel corso della creazione dello spettacolo, come avviene nello Strindberg assunto da Leo come base di lavoro per arrivare a ciò che sarà poi L’impero della ghisa, e che sbiadisce fino a scomparire da un punto di vista testuale. Ne resta sullo sfondo come un alone, il riverbero di qualcosa che non c’è più ma permane nella memoria, come la forza elastica nell’acciaio di una molla. Davvero è lo spettro di Amleto.

    7. Verso un teatro non-drammatico

    Possiamo definire non-drammatica quella forma di teatro che prescinda da uno sviluppo drammatico, cioè da un’azione sviluppata temporalmente attraverso un inizio, uno svolgimento e una conclusione, e che in generale pone in conflitto due o più personaggi. Quella drammatica è stata per venticinque secoli la forma del teatro in Occidente, dalla tragedia greca a quella elisabettiana, dal teatro barocco fino al dramma borghese. Proprio la crisi di quest’ultimo, specchio della più ampia crisi della società borghese, la crescente consapevolezza dell’autonomia della scena dalla letteratura drammatica, le esperienze delle avanguardie artistiche primonovecentesche portano gli artisti di teatro a guardare ad altri modelli, dal circo al varietà. La sparizione dello sviluppo drammatico dall’orizzonte dello spettacolo impone la necessità di trovare un’altra modalità di costruzione di un testo spettacolare che a questo punto, e da tempo, non è più soltanto verbale. Un’altra concezione di una trama che non coincide più con una vicenda agita da qualche personaggio.

    La modalità di costruzione del testo propria del teatro contemporaneo, la “forma del testo” potremmo dire, è il montaggio (di “montaggio delle attrazioni” aveva già parlato Ejzenštejn a proposito della propria idea di regia e in effetti non è escluso che la formula possa applicarsi a un teatro drammatico, quando soprattutto riesca a sottrarsi al controllo del diritto d’autore). Laddove evidentemente per “testo” si deve ora intendere lo spettacolo in quanto tale. A una vicenda sviluppata temporalmente si sostituisce una serie di scene, numeri, azioni, sequenze, a cui il montaggio operato dall’artista di teatro è chiamato a restituire unità. A differenza infatti del varietà, i diversi numeri non sono indipendenti l’uno dall’altro, nel loro succedersi si intravede appunto una trama; la creazione costituisce comunque un insieme, con un proprio nucleo tematico o emozionale, un fuoco geometrico (la malattia raccontata da Harold Brodkey per Questo buio feroce di Pippo Delbono, gli spazi anonimi delle Rooms di Motus, il consumismo da McDonald e supermercato nel caso di Rodrigo Garcia, la nostalgia di un passato che non ha avuto luogo in The sound of silence di Alvis Hermanis, la solitudine del “luoghi di contatto” in uno spettacolo di Pina Bausch e via enumerando, giacché si tratta di una modalità operativa in atto ormai in una larga parte della scena europea).

    Il montaggio instituisce comunque una narrazione, anche se non si tratta di una vicenda drammatica che si sviluppa attraverso i dialoghi di una serie di personaggi. E tocca al montaggio guidare l’attenzione dello spettatore, anche se il carattere più aperto della creazione si offre a una meno dogmatica possibilità interpretativa. L’assenza di una vicenda drammatica prefissata, con una conclusione obbligata (catartica o meno), mette in gioco lo spettatore come autore secondo di un proprio montaggio o di una riscrittura mentale di quel che capta delle azioni sceniche.

    Il montaggio delle attrazioni, per restare a Ejzenštejn, che si produce attraverso una varietà di tecniche personali dà luogo a una vera e propria sintassi scenica basata sul principio di connessione fra le immagini, dove emerge con insistenza una sorta di dialettica dei contrari o delle opposizioni, il ritmo delle associazioni e delle disgiunzioni, alternando ad esempio i pieni e i vuoti, le azioni veloci ai rallentamenti. Sulla scena possono prodursi simultaneamente due (o più) azioni autonome ma correlate in senso compositivo; una scena corale può fare da contrappunto a un momento di rarefazione.

    Non va tralasciato, a margine, che la rottura della struttura dialogica come base per un intreccio è da tempo esplorata dagli stessi autori teatrali che ancora si pongono su un piano di stretta osservanza drammaturgica alla parola. Dai due protagonisti di Aspettando Godot alle presenze indecifrabili e spesso incorporee degli ultimi lavori di Samuel Beckett si misura un progressivo slittamento verso una costruzione non-drammatica. Heiner Müller parte dalla lezione brechtiana per approdare a testi sempre più slegati dalla forma epica del maestro. La spesso sopravvalutata nuova drammaturgia britannica sperimenta ogni possibile forma di rottura dell’impianto drammatico tradizionale…

    8. Il teatro delle lingue

    La scelta di lavorare sull’invenzione linguistica, con un ampio ricorso alle forme dialettali, potrebbe essere considerata di per sé un’altra forma di minorazione – o al contrario una mossa (da tecniche di lotta orientali) per trasformare una debolezza in un elemento di forza. Vi si legge, a monte, la questione della mancanza di una lingua nazionale ancora presente a metà degli anni Sessanta quando un’inchiesta della rivista “Sipario” chiedeva: da cosa dipende la frattura che esiste in Italia tra gli intellettuali e la scena? Questione non nuova, evidentemente irrisolta, giacché riprendeva la domanda posta nel 1933 da “Scenario”, la rivista diretta allora da Silvio d’Amico – perché gli scrittori italiani non scrivono per il teatro? E vale la pena rileggersi cosa rispondeva Pasolini, e con toni diversi ma non distanti Natalia Ginzburg (la quale poi proverà a sperimentare questa difficoltà di agire misurandosi con la creazione di un testo per la scena che iniziava spiritosamente con quella battuta, “Dov’è il mio cappello?”, per cui confessava un acuto ribrezzo).

    È che non esiste, non si è ancora formato (in quel momento storico) un italiano parlato medio, per dirla con Pasolini. A differenza di un italiano scritto medio che, se pur spesso orribile, dopo un secolo di unità c’è. Il parlato teatrale italiano è una convenzione creata sull’inesistente, accademica e senza tracce di realtà, afferma lo scrittore. Anche il Piccolo Teatro milanese non ha fatto altro che creare una convenzione un po’ più aggiornata, ma anche il suo parlato è accademico, diverso dal parlato reale dello spettatore. Non a caso Pasolini salva dalla irrealtà accademica del teatro italiano la “purissima lingua teatrale” di Eduardo, che parla “più che il dialetto napoletano, l’italiano medio parlato dai napoletani, cioè un italiano reale”. E con Eduardo, pochi altri attori in fuga dalla convenzione attraverso parlati espressionistici – un Parenti, la Valeri dei momenti migliori, il fenomeno di plurilinguismo Laura Betti…

    Sono i temi che Pasolini metterà a fuoco tre anni dopo nel Manifesto per un nuovo teatro pubblicato nella rivista “Nuovi argomenti”, laddove lancia la sua proposta di un teatro di parola opposto tanto al “teatro della chiacchiera” quanto al “teatro del gesto o dell’urlo”, visti entrambi come espressione dell’incultura della borghesia. A consuntivo, per modo di dire, delle sei tragedie scritte in pochissimo tempo nel 1966 e poi limate, corrette negli anni successivi, forse mai realmente finite. Anni appunto in cui una lingua nazionale condivisa si va formando ma attraverso il suo imbastardimento nella koinè televisiva. Ma in quel ’68 in cui lo scrittore pubblica il suo Manifesto e in cui va in scena per la prima volta Orgia, protagonista Laura Betti per la regia dello stesso Pasolini, il termine “nuovo teatro” ha preso un’altra direzione con il convegno che ha riunito a Ivrea, nel 1967, i protagonisti di una rivoluzione della pratica scenica non circoscrivibile nel perimetro di un manifesto teorico. E quelle sei tragedie scritte in versi, vera e propria “poesia orale”, diventano ben presto un po’ meno attuali anche agli occhi dello scrittore che le dà “come cose quasi postume” – e postume infatti troveranno la via della pagina e della scena.

    La lingua, insomma, chi può se l’inventa.

    È il caso del “gramelot” padano inventato da Dario Fo per il suo Mistero buffo, che attraverso la sua incomprensibilità punta a mettere in rilievo l’universalità del linguaggio del corpo dell’attore, tendendo un ponte verso i comici dell’arte a cui idealmente si ispira. È il caso soprattutto della scrittura di Giovanni Testori, uno dei pochi autori realmente grandi del secondo Novecento italiano. Una scrittura incarnata nel corpo dello scrittore, che ha sempre diffidato di ciò ch’è vissuto in termini di metafora e non di presenza; sembra persino seguire o anticipare (e non metaforicamente, appunto) il lento e inevitabile mutare biologico di quel corpo. Impossibile rinchiuderlo in una pura dimensione letteraria, lo scrittore di Novate. Troppe le strade su cui misura il proprio bisogno espressivo. Giovane critico d’arte con lo sguardo rivolto a quel suo paesaggio padano, dove andava a riscoprire nomi poco conosciuti o dimenticati, come quelli di Francesco Cairo e Tazio da Varallo; pittore lui stesso, e mercante d’arte; poeta e narratore e da subito autore teatrale, per il debutto di una giovanissima Franca Valeri che anni dopo sarà La Maria Brasca sul palcoscenico del Piccolo Teatro, giovane operaia disposta a tutto per tenersi il suo uomo.

    Proprio la vocazione teatrale, o la tendenza a fare il teatrante, rappresenta forse il filo che lega tutta la sua vita nell’arte; lo spettacolo è per Testori una categoria sotto cui si può intravedere il mondo. La teatralità gli è innata. Del teatro scopre a sue spese la capacità di fare scandalo, e la fa sua. Il primo scandalo, quello dell’Arialda, gli era capitato addosso forse inavvertitamente, nel 1960. Quella ricerca di una dimensione tragica all’interno di un mondo popolare, la dichiarata omosessualità, non potevano che mettere all’erta la censura allora imperante. Ma come per Pasolini, lo scandalo diventa poi un’assunzione di responsabilità, come la dimensione religiosa testimoniata appunto nello scandalo, laddove la bestemmia può diventare la forma più alta di preghiera. Scandalo non sanato, capace di rompere la cappa di consenso e indifferenza del presente.

    Il teatro è una lingua del corpo, lingua della carne, lo sa bene Testori. Non è un caso che il suo teatro cerchi sempre il riflesso del corpo di un attore, e da ultimo lo porterà sulla scena in prima persona. Sarà Franco Parenti negli anni Settanta, quando inscena una scalcagnata compagnia di guitti girovaghi alle prese con i rifacimenti shakespeariani della Trilogia degli scarrozzanti, in quel panorama brianzolo di sempre, giacché quei personaggi tragici bisogna pur calarli nella propria realtà. E nel decennio successivo sarà Franco Branciaroli a condividere la passione religiosa con cui Testori affronta la tragedia dell’emarginazione come ultima e disperata scelta esistenziale, la dannazione come via alla salvezza. E ci sarà poi l’incontro postumo con il corpo di Sandro Lombardi, a ricondurre alla realtà di quelle assi di palcoscenico su cui l’attore recita la sua parte, dentro una scrittura scenica che opera per contaminazioni, in una sorta di mimesi del processo linguistico di Testori.

    Sull’altro lato dell’invenzione linguistica si evidenzia il crescente ricorso alle forme dialettali, variamente contaminate. Una larga parte della scrittura per il teatro contemporanea in Italia passa per il vaglio delle lingue regionali, con un significativo allargamento rispetto alle due tradizionali lingue teatrali della penisola, la lingua veneziana delle commedie goldoniane e il napoletano parlato sulla scena almeno dall’inizio del Settecento.

    In effetti la lingua napoletana è stata l’unica vera lingua teatrale italiana degli ultimi due secoli e giustifica il perdurare della tradizione che vi si incarna. Tanto da portare anche artisti che napoletani non sono a confrontarsi con essa. Il bagno nella tonalità napoletana che viene a Carlo Cecchi dalla frequentazione di Eduardo (Cecchi è toscano d’origini, vale la pena ricordare) mira appunto a ricreare una immediatezza. E provocatoria nei confronti dell’avanguardia poteva sembrare la scelta delle Statue movibili di Petito (e dunque il recupero della maschera di Pulcinella), per lo spettacolo che seguiva il Woyzeck di Büchner con cui aveva debuttato a teatro, alla fine degli anni Sessanta, che pure diceva la volontà di andare controcorrente dell’artista fiorentino anche rispetto al teatro sperimentale di quel momento. con cui prende forma la sua compagnia. Tornare all’autore napoletano, alla maschera di don Felice Sciosciammocca, significava prima di tutto per Cecchi affrontare il nodo dell’attore, ponendosi programmaticamente fuori dai canoni “naturalistici” del teatro di prosa imperante. Ovvero innestare la sperimentazione in una tradizione di teatro popolare italiano, di ascendenza meridionale, coltivata nel breve apprendistato a fianco di Eduardo da cui era venuta anche la spinta a recitare in napoletano. Nel teatro popolare napoletano Cecchi ritrova Brecht e lo straniamento in opposizione al finto naturalismo del teatro di quegli anni, senza dimenticare la lezione del Living Theatre. Accenti epici e buffonerie da sceneggiata si mescolano infatti nella messinscena dei due grandi testi di Majakovskij, la satira e l’utopia del Bagno e della Cimice, con cui il suo Granteatro prosegue nei primi anni Settanta la ricerca del rapporto con un pubblico diverso, quello dei circuiti alternativi, delle case del popolo toscane e emiliane, iniziata già col Woyzeck a Torino.

    Quello di Eduardo è stato nella seconda metà del Novecento l’unico vero teatro nazionale, anche perché legato a una tradizione che risale all’indietro al padre Scarpetta e alla maschera di Petito. E vale la pena ricordare l’omaggio postumo che gli riserva Leo de Berardinis, a Spoleto nel 1989, insieme a un’inedita compagnia che riunisce anche Toni Servillo e Antonio Neiwiller. La scrittura scenica di Ha da passà ’a nuttata rielabora diversi testi di Eduardo, a partire da Napoli milionaria, da cui viene anche il titolo scelto, la celebre battuta diventata proverbiale per esprimere la speranza e l’attesa di tempi migliori.

    Accanto a Eduardo, è però a Raffaele Viviani che ancor più si rifanno autori (e attori) come Annibale Ruccello e Enzo Moscato che si innestano in quella stessa tradizione. Rasoi, lo spettacolo dei Teatri Uniti di Martone e Servillo costruito sui frammentati testi di Moscato, rappresenta il punto di convergenza fra questa tradizione e un nuovo teatro che a questo punto (siamo nel 1991) ha già dato vita a una sua propria tradizione – ovvero la riscoperta dell’anima napoletana dentro nuove forme espressive e una lingua tesa come un filo fra la tradizione e le contaminazioni del presente. Guardando indietro senza rabbia (apparente) ma anche senza concessioni a facili sentimentalismi, lontano dalle trappole della napoletanità. Proprio Moscato del resto era anche fisicamente il cardine dello spettacolo, il magico evocatore dell’illusione che si tirava dietro il sipario e dischiudeva davanti a sé un mondo. E attorno a lui si animano allora i fantasmi di una fantasia insonne, disseminati fra letti sfatti e altarini di sensuali madonne. Non personaggi ma voci, Re Bomba e il suo cuoco; il bambino Palummiello che ha perso il sonno dopo la violenza; l’affabulatore cieco delle femmene ’e vita sempre ingannate dai dominatori di turno.

    Su questa linea si attesta il ritorno alle lingue regionali, che ha come più recente esempio il veneto di terra che trapela nella lingua imbastardita di Babilonia Teatri, filtrata da un’estetica pop. È la lingua romagnola (lingua e non dialetto) che da un uso essenzialmente poetico (Raffaello Baldini e Nevio Spadoni fra gli altri) passa nel teatro delle Albe e viene reinventata da Mariangela Gualtieri nei poetici testi scritti per gli spettacoli del Teatro Valdoca. È soprattutto la lingua siciliana che pure può vantare una secolare tradizione teatrale, vedi le commedie scritte da Pirandello per Angelo Musco, e richiamata in vita da Franco Scaldati si allarga a una nuova generazione, da Emma Dante a Davide Enia e altri ancora, mentre si riscopre il cunto del puparo Mimmo Cuticchio, dalla cui scuola esce anche Vincenzo Pirrotta, artefice fra l’altro di una versione siciliana delle Eumenidi che Pasolini aveva tradotto da Eschilo. Ma prima ancora c’era stata l’Orestea di Gibellina, reinventata in una lingua siciliana alta e contaminata da Emilio Isgrò, artista visivo e poeta prima che drammaturgo, e andata in scena nel corso di tre estati fra il 1983 e il 1985 sulle rovine del paese del Belice distrutto dal terremoto.

    Presenza appartata, per carattere meno vistosa di altre, per quasi quarant’anni Franco Scaldati si è impegnato a scavare nel ventre di Palermo, in una sua zona d’ombra, per tirarne fuori quei personaggi marginali, disperatamente comici e un poco irreali che riversava nei suoi testi. Calati in una scrittura che attraversa con violenza e dolcezza un mondo interiore di velata sensualità. Personaggi che emergono per una sorta di evocazione medianica dalla voce dell’autore, incerti fra la vita e la morte, come quelli di Lucio, isolati in un antro imbiancato dalla luna, dove non c’è più azione e il dialogo è ormai superato, è diventato parola pura, a cavallo fra favola e poesia. Attraverso il flusso di una parola aspra e visionaria, nell’incanto di una lingua antica che pare poter vocalizzare ogni lettera, per il piacere della sonorità, prende vita nei suoi testi un universo poetico fortemente ancorato nella terra siciliana ma lontanissimo dai luoghi comuni che la marchiano. Storie di solitudini che si incontrano. Sono i due barboni del Pozzo dei pazzi in lotta per una gallina; i vecchi solitari e alcolizzati di Assassina; l’usuraio cieco di Occhi, vittima provvisoria di una nipote che gli vende un po’ di sesso, che racconta lo sprofondamento verso una sessualità maledetta.

    Palermo è l’altrove capace di insondabili profondità anche per Emma Dante. Significativamente si intitola mPalermu lo spettacolo con cui debutta da regista creatrice nel 2001, con la compagnia Sud Costa Occidentale da poco costituita, dopo gli anni di formazione all’Accademia nazionale d’arte drammatica e una decina d’anni di apprendistato teatrale da attrice scritturata. Un ritorno alle origini anche linguistiche giacché quella lingua palermitana ritrovata diventa il cardine memoriale di un lavoro di immersione in un “sud” che, come quello di Leo e Perla a Marigliano, non ha alcuna connotazione o colore locale. Tratto iniziale di una “trilogia della famiglia” che nel giro di qualche che nel giro di qualche stagione impone il nome della regista e drammaturga palermitana anche sulla scena internazionale, mPalermu mette in scena un gruppo familiare chiuso in un luogo da cui non riesce a uscire; nèsciri è il verbo che ritorna continuamente nei loro dialoghi, variamente coniugato. Se ne stanno allineati a filo del proscenio ed è quella evidentemente la soglia che non riescono a varcare, da cui a volte sono ricacciati indietro verso lo spazio buio che sta alle loro spalle, che a volte cercano di aggirare con una sorta di manovra diversiva. Nasce da lì quella frontalità che dai primi lavori arriva fino a Le sorelle Macaluso, che di quella trilogia costituiscono in qualche modo il quarto atto. Sono storie di bestie portate al macello, di feste che si mutano in cerimonie funeree, di aggressività e rancori che si nascondono nelle gerarchie dei ruoli e nei rapporti familiari. L’esperienza della violenza data e subita ha una traccia persistente nelle creazioni di Emma Dante, nella trama di quelle storie familiari sempre un po’ marginali – è una “famiglia” anche quella mafiosa o camorristica di Cani di bancata o quella dei travestiti delle Pulle, non a caso vegliate entrambe da una figura materna. Basta un niente perché rispuntino fuori i rancori repressi, le vecchie ferite che si portano dentro mai sanate, briciole di una vita di dolore che appare però come un marchio collettivo piuttosto che il carattere di un singolo personaggio, sempre corale e imprescindibile dal suo contesto. Lo stupro, l’incesto, la prostituzione non sono i temi ma le manifestazioni (o se si vuole il paradigma) di una condizione umana che riguarda tutti.

    Diversamente significativo è il caso di Spiro Scimone che parte da due testi in dialetto messinese prima di tornare alla lingua italiana. Sorprendente opera prima (nel 1994), Nunzio inscena due solitudini che convivono, due uomini che si nascondono a sé e al mondo. L’uno sempre in giro per misteriosi incarichi, forse un killer; l’altro chiuso in casa, di guardia al frigorifero e alla malattia che gli squassa i polmoni. Più che la vicenda che arriva come un’eco, conta la situazione che si realizza sulla scena, il rapporto fra due umanità straniere l’una all’altra, avvicinate però da una comune marginalità, nel senso proprio dello stare ai margini della vita. Situazione pinteriana, come viene subito etichettata, costruita su dialoghi brevissimi, fatti di battute di poche parole, con un uso molto musicale, quasi jazzistico, della frase e della parola, su un ritmo sincopato che mette in evidenza le frequenti ripetizioni e variazioni di un medesimo tema. Ma dove s’impianta l’originalità stilistica di Scimone è proprio il dialetto messinese in cui è scritto il breve atto unico, un siciliano di frontiera, allusivo e al tempo stesso facilmente comprensibile. Lingua non astratta o letteraria, ma nata all’interno dell’esperienza di scena condivisa da Scimone con Francesco Sframeli, resa vitale dalla dialettica fra la ricerca di stile e la concretezza del quotidiano, arricchita dalla consapevolezza acuta del conflitto con la convenzione naturalistica su cui interviene la regia di Carlo Cecchi.

    Staccandosi da una linea per così dire naturalistica, cioè di aderenza al parlato (Eduardo, Viviani…), lo sprofondare nei suoni delle lingue regionali non si pone in contraddizione con la ricerca di una lingua del tutto artificiale, che mira cioè a superare il problema (o supplire al problema) della mancanza di una lingua nazionale non andando verso una quotidianità dell’espressione bensì al contrario esaltando l’aspetto poetico della lingua come invenzione, contaminando forme alte e basse, letterarie e popolari ma anche accentuando la valenza sonora della lingua. (E ci sarebbe da citare, quanto a desiderio di universalità, anche la “generalissima” immaginata dalla Socìetas Raffaello Sanzio a metà degli anni Ottanta ma durata lo spazio di uno spettacolo veneziano e ripresa di recente in una nuova creazione di Romeo Castellucci, Uso umano di esseri umani, in maniera altrettanto episodica).

    9. Nuove scritture di scena.

    Scritture che nascono sulla scena. Minorazione del testo drammatico, laddove ancora viene utilizzato. Tensione crescente verso un teatro non-drammatico. Ce n’è abbastanza per pensare che poco spazio resti per l’affermarsi di una nuova drammaturgia verbale, più o meno tradizionalmente intesa. Non è proprio così. La tentazione drammaturgica riemerge anche nel teatro italiano (altrove non era mai venuta meno, a cominciare ovviamente dalla scena inglese dove con costante frequenza si producono ondate di nuovi giovani arrabbiati). Riemerge forse non per caso, all’inizio degli anni Ottanta, nel momento in cui si va esaurendo la forza propulsiva del nuovo teatro, la sua differenza, e più forte è anche a tentazione di scivolare nel manierismo (termine per altro di per sé non interpretabile in senso negativo) da parte di un teatro che ha teso fino al limite lo sguardo analitico e l’identificazione fra arte e vita. E va in parallelo con la rivalutazione della funzione registica all’interno dell’ensemble, cioè come riscoperta dei ruoli dopo la stagione della creazione collettiva.

    Federico Tiezzi è il primo a rompere l’apparente tabù, all’interno dell’area che con ovvia approssimazione si può definire sperimentale, con un testo scritto in versi, Genet a Tangeri, che apre una trilogia intitolata alla Perdita di memoria. La trilogia è anche, non per caso, un tentativo di far chiaro in se stessi e nel proprio lavoro, un progressivo avvicinamento al fondo scuro dell’arte dell’attore, visto attraverso le due polarità, maschile e femminile, di Sandro Lombardi e Marion D’Amburgo. Sia che a far da guida in questa discesa agli inferi si scelgano due personaggi diversamente rappresentativi di una condizione artistica ed esistenziale estrema – l’eversivo Genet santificato da Sartre come “commediante e martire” o il romantico e melanconico Paolo Uccello, ossessionato dalla prospettiva; sia che gli attori possano infine andare in scena con il proprio nome, allo stesso tempo personaggi e interpreti, ai bordi di una piscina che richiama quella celebre di Viale del tramonto.

    Ancora più marcato è lo sperimentarsi di Marco Martinelli come autore di un testo compiuto, se pur sempre in funzione di uno spettacolo in fieri con la propria compagnia. Il regista delle Albe si appoggia di volta in volta sugli autori che sente più affini a una sua vocazione satirica, da Swift a Jarry. Con un gusto per il racconto morale d’ambientazione fantastica sperimentato fin dal tempo dei Refrattari, “drammetto edificante” d’ispirazione aristofanesca, che si ribalta in un musical delirante nel più recente Salmagundi.

    Va osservato che in tutti questi casi il testo non preesiste ma riempie uno spazio, fisico o mentale, già individuato. E vale anche nel caso, assai diverso, dei testi poetici che Mariangela Gualtieri scrive per gli spettacoli del Teatro Valdoca, di cui è indubbio l’autonomo valore letterario. L’eventuale pubblicazione, quando avviene, è un atto posteriore, è l’esito su un diverso piano artistico dell’esperienza teatrale; non diversamente avviene anche a livello internazionale, per autori come Jan Fabre o Rodrigo Garcia, che sono prima di tutto artisti di teatro. L’autore letterato, che nella propria stanza scrive seguendo l’ispirazione o su committenza, è un residuo del passato, figura ormai patetica nel lamentare lo scadere della propria funzione.

    Determinante è poi il fatto che anche gli artisti che maggiormente si caratterizzano per una vocazione drammaturgica, da Franco Scaldati a Fausto Paravidino e Spiro Scimone, restano saldamente ancorati all’esperienza della scena: senza mediazioni, in quanto attori. Di più, la loro è lingua di scena che non può prescindere, fin dalla fase creativa, dalla presenza fisica dei compagni in cui prenderà corpo, quella di Francesco Sframeli nel caso particolare di Scimone.

    Se dunque di un ritorno di interesse per la drammaturgia verbale si vuol parlare, di fronte all’affermarsi di alcuni autori quali appunto Scimone e Paravidino, tradotti e rappresentati anche all’estero, non si può tralasciare che esso avviene su un terreno ormai mutato. Nulla è più come prima, non si può cioè parlare di un ritorno all’ordine precedente, di un movimento regressivo. Si sono ormai assorbite le spinte e le attese dei decenni precedenti. Per questi autori, o più propriamente artisti di teatro, la scrittura è strumentale a quanto vogliono dire con i mezzi del teatro. Proprio in quanto uomini di teatro si assumono la responsabilità del fatto scenico, in cui la partitura verbale converge.

    Fin dagli esordi il teatro scritto da Spiro Scimone parla di un oltre, di una realtà posta al di là dei confini visibili della scena. Separata da questa da una barriera fisica e tuttavia percepibile, nella sua ambiguità se non nel vero e proprio mistero, ai suoi abitanti. Il mondo fuori dalle pareti domestiche di Nunzio, da cui arrivano allarmanti messaggi lasciati sotto la porta. Il Bar invisibile oltre il muro che separa i due protagonisti dai suoi frequentatori, un cameriere con ambizioni di barman e l’avventore che non si sa cosa faccia, giocatore a carte e con la vita. Il misterioso spazio del Cortile, nascosto dietro la barricata di cose buttate vie, eretta quasi a difesa di quello spazio, il misterioso cortile abitato da personaggi rampanti, forse lo stesso che si renderà visibile in Pali. Come se la quarta parete, ormai sparita dal proscenio di un teatro che non ha più separazione fra scena e platea, si fosse spostata sul fondo, a delimitare lo spazio del teatro da ciò che sta fuori. Un fuori che tuttavia non può essere rimosso dalla coscienza, anzi è costantemente presente nel pensiero del teatro. Di più, si misura nel teatro di Spiro Scimone una vera e propria emergenza di questo oltre, una necessità di venire alla luce (della scena). Fino a richiamare a sé quelli che stanno “di qua”, personaggi in cerca non di un autore ma di un luogo, la scena come ultimo rifugio. C’è in tutto il teatro di Scimone una tensione quasi majakovskiana a prefigurare mondi altri, universi futuri o paralleli che hanno la capacità di dirci del nostro universo. Come se la realtà potesse essere raccontabile solo allontanandosi dalla sua immediatezza. Non è però un processo metaforico quello messo in atto da Scimone. Pali e cessi non alludono a qualcosa d’altro, non rimandano ad altro da quello che sono. Da qui nasce quell’effetto di straniamento per cui non possiamo più riconoscere ai personaggi il comodo rifugio della psicologia. Una sorta di trasparenza li accompagna, una purezza di sentimento. I personaggi di Scimone hanno sovente un che di clownerie, di buffoneria. Figure di un lunare, stralunato vaudeville che dialogano sul filo del nonsense. Dove la tormentosa ripetizione che scandisce i dialoghi secchi, fondati su una ormai solida tecnica di gioco, sembra confermare piuttosto che sciogliere l’assurdo che vi fa capolino. Dove anzi la ripetitività fa da crudele specchio a un sentimento di insensatezza della quotidianità, a una evidente impossibilità di uscire dai gorghi della propria storia. Ma Scimone è abile a capovolgere la buffoneria in una costante interrogazione. Sul fondo del suo teatro c’è sempre chi dice no. Chi non è disposto a “digerire tutto”, per dirla col protagonista del Cortile.

    Ripetizione e variazione portano anche a esplorare tutte le possibilità offerte dalle parole, la loro necessità. Sono le armi affilate da una lunga esperienza con cui si confrontano i personaggi in scena, in un continuo rinfacciarsi episodi distorti e un passato forse inventato. Le parole ingannano e sono usate per ingannare, soprattutto se stessi, perché a forza di ripeterle, quelle battute tormentosamente ossessive, ci si può convincere che siano vere. E l’introduzione di un terzo e poi di un quarto personaggio, rispetto ai primi lavori precedenti a due, dove però l’altro era presenza invisibile ma incombente, offre a Scimone lo strumento per modulare le sue variazioni, giacché la parola può assumere un valore diverso se si rispecchia in un diverso interlocutore.

    10. Un teatro per lo spettatore

    Un nuovo spettatore per un nuovo teatro? Non vi è dubbio che una riflessione sul destinatario dell’evento teatrale accompagna tutta la vicenda novecentesca, dalle avanguardie storiche ai grandi riformatori dell’arte scenica. E si insinua anche nella drammaturgia del nuovo teatro: si vuol dire che lo spettatore, il suo posizionamento, entrano nella scrittura scenica al pari di altri elementi drammaturgici. Senza spettatore lo spettacolo cessa di esistere, dice Romeo Castellucci. Può sembrare un’ovvietà ma riafferma non solo la consapevolezza dell’artista sulla necessità di questa presenza per il compimento stesso dell’evento teatrale ma altresì la sua necessità drammaturgica. E questa necessità assume talora una concretezza anche fisica, laddove gli spettatori vengono inglobati dall’artefice all’interno della struttura dello spettacolo, annullando quella “quarta parete” che era il simbolo della separazione fra la sala e la scena del teatro borghese – complice anche l’uscita dagli edifici teatrali della tradizione che consente di pensare diversamente lo spazio scenico: le scenografie pensate da Ronconi per La torre o Ignorabimus, all’interno del Fabbricone di Prato, contengono visibilmente anche gli spettatori; quelli dei Sei personaggi di Vasil’ev sono trasformati dall’artefice nei frequentatori del bordello di Madame Pace così come coloro che siedono sull’artificiale gradinata delle Troiane di Thierry Salmon, sui ruderi di Gibellina, sono costretti a identificarsi con i greci vincitori e carnefici davanti alle donne diventate preda di guerra… Leo de Berardinis non cesserà di ricordare che il teatro, a differenza di altri arti, non può che essere contemporaneo, non può essere compreso a distanza di tempo dal suo manifestarsi, come avviene per un libro o un film. “Teatro dell’errore” avevano definito, lui e Perla, le loro prove romane prima della discesa al sud di Marigliano, proprio in quanto rivolte a un pubblico sbagliato.

    Per i maestri del Novecento si tratta di inventare uno spettatore partecipe anziché osservatore passivo dell’evento. Nel “teatro della crudeltà” lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda, proclama Artaud. E la polemica di Brecht contro il teatro “gastronomico” è rivolta evidentemente anche contro lo spettatore che lo consuma. Giacché c’è una corrispondenza biunivoca fra le strutture del teatro borghese e il suo pubblico, una borghesia (appunto) a cui quel teatro offre lo svago di problematiche che gli sono familiari e l’interesse di una trama che si scioglie in una comprensione immediata, senza un ulteriore obbligo di pensare.

    La dissoluzione della borghesia come classe omogenea che si compie nel secondo dopoguerra, laddove era nata, nell’Europa che la modernità ha trasformato in Occidente, determina uno strappo anche su questo piano, giacché toglie al teatro borghese il suo pubblico. Il teatro borghese sopravvive come struttura ma svuotato del pubblico per il quale era nato, parzialmente sostituito da un pubblico piccolo-borghese, a cui esso ripropone quelle medesime trame e problematiche, quella medesima ideologia. E nell’elogio dello “spettatore addormentato” fatto da Ennio Flaiano si riflette l’incolmabile distacco di questo teatro dalla cultura. C’è semmai da notare, a livello italiano, la storica assenza di una borghesia nazionale che si è riflessa non per caso anche nell’assenza di un teatro nazionale, quale è stata per esempio la Comédie Française per la Francia – l’ideologia borghese qui da noi si è incarnata piuttosto nel melodramma. Il Piccolo Teatro di Strehler e Grassi che nasce a Milano in quel dopoguerra guarda già a un pubblico popolare, sull’esempio di esperienze come il TNP di Jean Vilar.

    Non c’è più una borghesia da épater, per le neoavanguardie che negli anni Sessanta riprendono il filo delle storiche esperienze primonovecentesche. C’è semmai la ricerca di un nuovo pubblico, con tutte le contraddizioni e anche gli errori di prospettiva che ciò comporta. Un pubblico non più indistinto ma fatto di tanti spettatori, a un tempo testimoni dell’opera e partecipi della sua vita, chiamati anzi a completare l’opera che non a caso si vuole “aperta”. Thierry Salmon dichiara di lasciare dei buchi nella costruzione dello spettacolo perché chi guarda se ne possa investire, perché due spettatori non vedano la stessa cosa.

    Il farsi plurale dell’esperienza dello spettatore è il tratto più distintivo di questo passaggio; esso cancella la possibilità stessa di rivolgersi a uno spettatore “modello”, così come appare irrealizzabile un “modello” di regia, e corrisponde al polverizzarsi dell’esperienza artistica, che non si riconosce più in movimenti o in tendenze, al di là delle provvisorie sigle che per un momento possono esservi applicate dall’esterno. Ogni opera costituisce un avvenimento unico, che è impossibile ricondurre a categorie familiari allo spettatore. I singoli spettatori non costituiscono più una massa omogenea (tanto meno una classe sociale) ma possono essere pensati idealmente come tanti pubblici diversi, invitati a prendere parte al processo di creazione. La stessa drammaturgia dello spazio, che della scrittura scenica costituisce un elemento portante, può essere allora aperta, cioè costruita pensando ai tanti singoli spettatori che se ne impossessano, alla cui capacità compositiva fa appello lo spettacolo. Se l’Orlando furioso di Luca Ronconi può fungere da paradigma, per l’evidenza con cui nega allo spettatore uno sguardo unico, l’unica prospettiva voluta dall’artefice, lo spostamento che così si innesca determina un moto irreversibile.

    Ronconi persegue l’utopia di un teatro infinito, che consenta una totale libertà di scelta da parte dello spettatore. Ma ciò che concretamente si afferma nello spazio della creazione artistica contemporanea è appunto uno spettatore chiamato a prendere posizione dalla libertà di orientamento offerta dallo spettacolo: non solo fra i tanti spettacoli possibili ma a come connettere la materia fornita dallo spettacolo, nel momento in cui vengono meno chiare regole con cui guardare – il che vuol dire a pensare politicamente, fare dello sguardo una forza critica e liberatoria. C’è come un passaggio di testimone che si realizza nello spazio che si stende fra l’artista e lo spettatore, per suo tramite viene consegnata allo spettatore la memoria della scena, e con essa la responsabilità di farla vivere. Nella consapevolezza che lo spettacolo più duraturo non è quello che si consuma nell’effimera esperienza della sala teatrale, ma si fa nella memoria dello spettatore. Dove azioni, parole, corpi acquistano senso e diventano emozione, cioè conoscenza.

    C’è un momento che lo mostra in maniera esemplare in Fastes-Foules, lo spettacolo geniale con cui si erano conosciuti in Italia Thierry Salmon e i suoi giovani compagni dell’Ymagier Singulier, nel 1983 – creazione fuori dai canoni già nella scelta di rivolgersi al naturalismo ottocentesco di Zola attraverso il ponderoso ciclo romanzesco dei Rougon-Macquart – scelta che però già rivelava in trasparenza l’interesse del regista per la “biografia” dei personaggi, il lato invisibile della sua drammaturgia. Gli spettatori che all’inizio si trovano isolati nelle case dei protagonisti, le piccole stanze fatte di lenzuola stese in cui è suddiviso lo spazio scenico, a tu per tu con attori diversi, al sollevarsi di quel labirinto di panni bianchi si ritrovano d’improvviso tutti insieme in un unico spazio, nel mezzo dell’azione. Gruppi di donne al lavatoio. Uomini al lavoro in un cantiere. Lo spettatore che aveva sperimentato la dimensione solitaria della propria singolarità si ritrova proiettato in una dimensione collettiva. Dove per un momento, il tempo dell’evento teatrale, può immaginare di condividere un’idea di comunità. Non l’artificiale e perciò rassicurante comunità di estranei che occupa oggi gli “spazi pubblici”, attenta a evitare qualunque rapporto sociale profondo, ma l’ultimo baluginio dell’utopia che il teatro aveva a lungo coltivato, essere luogo di incontro capace di far rinascere un sentimento di differenza.

    © copyright 2014 Gianni Manzella

     

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