Lascia un incerto senso di vertigine lo spaesante nicht schlafen di Alain Platel a Torinodanza. Sarà forse per quei cavalli abbattuti con cui si presenta agli occhi degli spettatori, alle Fonderie Limone di Moncalieri. Giacciono uno sull’altro su una specie di palchetto al fondo della scena. Riversi sul dorso, gli arti ancora tesi in uno spasmo. Qualcuno arriva da fuori, si aggira intorno alla composizione. Altri si avvicinano, restano immobili a guardare. Un sipario strappato inquadra su due lati l’opera di Berlinde De Bruyckere, come una cornice che contenga la violenza dell’immagine. L’artista belga si era rivelata anni fa proprio con un’installazione ispirata alla prima guerra mondiale. I cadaveri di cinque cavalli ricostruiti in maniera molto realistica, racchiusi in una teca o appoggiati su un banco. Ciò che resta sul campo di battaglia. In flanders fields. Sui campi delle Fiandre spuntano i papaveri tra le croci, dicono i versi di John McCrae, poeta e chirurgo da campo canadese morto in realtà sui campi di Francia, nel 1918. Gustav Mahler era morto qualche anno prima, alla vigilia dell’inutile strage bellica.
Ecco subito convocati i primi temi che pare di cogliere nella creazione di Platel. La morte il dolore la violenza l’innocenza. La poesia. E la musica di Mahler, che però non inizia subito. Nell’immobile silenzio si sente dapprima solo il suono di un sonaglio. Allora uno dei danzatori comincia a muoversi da solo, con gesti sgraziati e disarmonici e contorsioni che richiamano alla mente quelli sperimentati da Platel in Out of context o tauberbach. È illusione di un momento. Platel è sempre capace di disattendere con uno scarto di lato le nostre attese, di rilanciarci la sfida, e forse anche da questo deriva la sua capacità di emozionare ogni volta come alla prima. Sono passati vent’anni da quando Platel ci sorprese con le prime creazioni presentate sui nostri palcoscenici, e ancora abbiamo nella memoria la pista dell’autoscontro su cui correvano i ragazzini di Bernadetje. I temi alla fine rimangono gli stessi. Ma di che altro, se non questo, deve parlare il teatro?
Quando il movimento diventa corale, anche il gesto si scioglie. È il momento in cui entrano in gioco le note di Mahler, disturbate da suoni che non è facile decifrare, sapremo che sono registrazioni di animali addormentati. Con qualche dichiarata esitazione, vista la predilezione sempre mostrata per la musica barocca, Platel ha scelto quella del compositore austriaco come base sonora per questa nuova creazione. Attingendo soprattutto alle sinfonie, di cui emergono i momenti più meditativi e qualche passaggio vocale, a cominciare dal celebre Adagietto della quinta sinfonia che anche il cinema ha contribuito a rendere popolare. Ma spezzati come le frasi coreografiche che vi si appoggiano. Del resto i brani musicali sembrano stare lì per rendere più evidente la violenza che li separa, quando la danza diventa una lotta. Comincia come un gioco, un afferrarsi e spingersi a vicenda, un buttarsi a terra cercando di strapparsi gli abiti. Ma poi sono botte e calci e urla che soffocano i lamenti. Sono nove interpreti, una è una ragazza, che graffia la forte impronta maschile del lavoro.
Sono seminudi e ormai sfiniti e il palco è coperto di stracci quando riprende la musica e con essa la danza. Si raccolgono in gruppo da un lato. Accennano un passo corale. Anche le mani alzate in un gesto che sembra di resa trascinano a un passo di ballo. Ma sono sempre brevi momenti. C’è ora una sorta di stanchezza nel gesto che si anima e subito si spegne. Si sono rivestiti di giubbotti colorati. Si sente il loro respiro ansimante.
Non dormire, dice il titolo. Ma come si potrebbe, di fronte a questo accumulo di tensioni fisiche e mentali che si vanno proponendo con un moto sussultorio. Corpi che si scalano, corpi che si prendono e lasciano, si appoggiano l’uno sull’altro, si cavalcano. Ricompaiono con sonagliere alle caviglie per marcare il tempo dei loro passi ritmati.
A un certo punto la violenza sembra concentrarsi su uno solo fra loro. A turno ma senza tregua gli si buttano addosso, lo trascinano a terra e qui si accaniscono sul suo corpo, senza celare il sottofondo sessuale dell’aggressione. Alla fine lo gettano inerte sulle carcasse degli animali. Viene quasi spontaneo pensare a un Sacre stravinskiano, davanti alla vittima sacrificale. Un rito più autunnale che primaverile però; i colori di nicht schlafen tendono al bruno, l’oscurità prevale sulla luce. C’è qualcosa di caravaggesco nell’immagine dei corpi che per un istante si fissa sulla scena. Ma quel che conta è appunto l’aspetto rituale che emerge in maniera sempre più chiara in questa a suo modo sacra rappresentazione. Il rito che dà forma a ciò che sarebbe altrimenti indistinta emozione. Lo dicono anche i canti polifonici intonati dai due cantori congolesi Boule Mpanya e Russell Tshiebua, reduci dal precedente Coup fatal, apparentemente dissonanti dalla musica di Mahler. Così rituali e formali anch’essi.
C’è un momento esemplare, nel finale, come un bagliore che illumina lo spettacolo. Una momentanea fuga dal palco degli interpreti per lasciare che la luce e lo sguardo loro e nostro si concentrino su quell’ammasso di corpi animali che non hanno mai smesso di sollecitare la nostra attenzione. La contemplazione del dolore. Viene da pensare alla sofferenza dell’animale picchiato da un soldato di cui parlava Rosa Luxemburg in una lettera dal carcere, pochi mesi prima di essere assassinata. Ma quel ritrarsi degli interpreti che ci lascia soli di fronte alla fissità di un’immagine di morte, dopo averci guidato fino a lì, invita ad andare oltre.
nicht schlafen ci parla della medicazione del dolore. Forse è essa stessa, la creazione artistica, una forma di medicazione. Diventa più chiaro allora anche l’esplodere festoso di fiati e percussioni che un attimo prima aveva in qualche modo rovesciato lo spirito della danza. Un inno alla gioia. Se non si può sfuggire alla fragilità della condizione umana, si può tuttavia cogliere la bellezza che c’è dentro di essa.
© gianni manzella 2016