La ricordo bene questa Orestea che una ventina d’anni fa ci sorprese per la radicalità con cui metteva in dubbio la possibilità di un tragico contemporaneo, aprendo una crepa che si sarebbe poi dilatata nella lunga teoria della Tragedia Endogonidia. Un fuoco privo di colore si proietta dal velatino teso sul proscenio verso il fondale che racchiude la scena, annunciando l’inizio dell’azione nel fragore di un uragano tropicale. La scolta di guardia oscilla in piedi su una sedia cercando un precario riparo sotto un ombrello. E subito le immagini tornano con prepotenza alla mente. Apparizioni visionarie, incubi notturni. Il bianco coniglio dalla lunga veste che guida la marcia di un coro di coniglietti di gesso che a un certo punto esploderanno uno dopo l’altro. L’opulenta Clitennestra che inveisce con voce artefatta distesa su una sorta di letto da triclinio. Cassandra chiusa in una teca di vetro che a stento la contiene e si colorerà del suo sangue. Il trono di Agamennone che è una sedia girevole che continua a girare a vuoto. E Oreste e Pilade efebici corpi imbiancati che si cercano mentre compiono misteriosi riti funebri sulla tomba del padre. E quel capro squartato, simulacro del corpo del re ucciso, che continua a pulsare di un respiro meccanico. E la protesi pneumatica che Pilade impone all’amletico Oreste perché il suo braccio possa compiere ‘da sé’ il matricidio a cui lui vorrebbe sottrarsi.
Ma è proprio così? Che rapporto c’è realmente fra le immagini richiamate dalla memoria e lo spettacolo che stiamo vedendo? Perché la creazione di Romeo Castellucci, ripresa l’anno scorso al Festival d’automne parigino e riproposta da RomaEuropa per pochi giorni all’Argentina, ci appare assolutamente nuova. Nuova cioè a prescindere da quegli ovvii ricordi – ovvii in quanto impossibili da rimuovere una volta installati in qualche recesso della mente, come forse un giorno la neurofisiologia ci spiegherà. Nuova nella forza emotiva con cui ci viene addosso come nella capacità di rimettere lucidamente in discussione il senso dell’immersione nelle acque scure del mito. Nella solitudine del tragico.
Castellucci ha più volte dichiarato in passato la sua contrarietà a rimettere in scena le creazioni del passato. E anche ora ribadisce che rifare uno spettacolo dopo tanti anni non è una buona idea: non lo rifà infatti, ci dice. Lo raccoglie come un oggetto ignoto. Cioè lo ripropone esattamente com’era vent’anni fa. Soltanto i corpi degli interpreti sono inevitabilmente cambiati, con poche eccezioni, in primo luogo l’Agamennone di Loris Comandini e la straordinaria Cassandra di Nicoletta Magalotti aka NicoNote, performer vocale che già aveva impresso il suo segno nell’edizione originaria. E forse anche le musiche che recano la firma di Scott Gibbons non sono del tutto aderenti a ciò che ricordiamo. Non ha molta importanza. Credo sbagli Castellucci quando si riferisce a questa ripresa come un’esperienza di antropologia teatrale. Non è in questione cosa è stata Orestea in quella sorta di belle époque che furono gli anni Novanta della Socìetas Raffaello Sanzio, oggi dissoltasi per far posto a una “socìetas” di personalità artistiche individuali. La sua riproposizione ha poco a che vedere anche con i “pezzi staccati” del Giulio Cesare di qualche stagione fa, che proprio per essere tali inevitabilmente convocavano ciò gli si inframmetteva. Del teatro qui e ora si tratta, come sempre.
Una commedia organica? Così si interroga dubbiosamente il complemento del titolo che si può pronunciare solo fra parentesi. La commedia come malattia della tragedia, o come suo inevitabile sbocco. Agamennone è un antro oscuro e rumoroso dove un apprendista stregone, forse un tardo discepolo del mago Alcandre di Corneille, tiene nascosti gli strumenti di una tragicomica ‘illusion comique’. Che fa balenare davanti ai nostri occhi la Clitennestra da balena melvilliana e la Cassandra imprigionata e l’innocenza down del re che va al macello. Tubi che penzolano dall’alto. Sfrigolanti macchine elettriche. Paranchi meccanici che sollevano ganci da macellaio. Ma di una tecnologia ormai obsoleta si tratta, tutto appare consumato dal tempo. Persino un po’ sdrucito. Quando il pavido corifeo comincia a raccontare del sacrificio di Ifigenia, finisce dentro un’altra storia, un’altra favola. O per dire meglio, trascina Ifigenia dentro un’altra favola, dove la giovinetta correndo dietro al coniglio si infila nella sua tana e sprofonda lentamente in un pozzo senza fondo. “Signor Toni, venga via, sta sbagliando tutto”, gli gridano da fuori. Ma lui, l’attore, ormai ha preso gusto al ruolo (un personaggio!), e non desiste neppure di fronte alla violenza che gli si scatena contro. La favola si è attestata dentro la tragedia, con tutta la sua nascosta violenza. Si tratta dunque di attraversare uno specchio per ritrovarsi da Eschilo dentro Artaud che traduceva Lewis Carroll in manicomio.
Coefore è la polvere. Una sostanza biancastra che si disfa e vien giù dall’alto. Lo spazio bianco, reso nebbioso dai veli che l’avvolgono, sembra il negativo dell’atto precedente. Come il silenzio assoluto in cui si muovono nudi Oreste e Pilade, che gonfia le poche parole che vi risuonano. Elettra che è una lumacona in tutù e offre il seno generoso all’ombra del padre; Pilade che riveste l’amico della pelliccia del potere in precedenza esibita da Egisto. Qui siamo finiti nel mezzo di una raggelata clownerie, tutto si produce in una sorta di slow motion che amplifica il dettaglio dei gesti. Il terremoto che scuote il palco dopo il matricidio è come il gesto della mano che spazza le pedine sulla tastiera, interrompendo la partita. Potrebbe finire qui.
Fin qui la cronaca. Il terzo atto, Eumenidi, a Roma non è andato in scena perché non è arrivato il permesso di far esibire il gruppo di scimmie incarnanti le “benevole” – prima avevamo visto passare due cavalli neri e un asino albino. E allo spettatore di un tempo non resta che lasciarsi alle spalle la tempesta e tornare nel porto (non si sa quanto sicuro) della memoria. Raccolta anch’essa come un oggetto ignoto.
*
Riproduciamo di seguito la cronaca dello spettacolo pubblicata su “il manifesto” nell’aprile 1995.
L’Orestea di Romeo Castellucci al Fabbricone non è molto diversa dall’omonima trilogia tragica di Eschilo. L’immagine di un fuoco si proietta sul velo che separa idealmente gli spettatori dal luogo dell’azione. È il segnale atteso che annuncia ad Argo la fine della guerra di Troia. La sentinella in equilibrio precario su una sedia apre lentamente un ombrello, suo unico riparo, e si lascia dondolare nel vuoto mentre con voce distorta dà sfogo alla propria sofferenza per il lungo anno passato di guardia. I protagonisti della favola arcaica sono tutti lì, dietro i teli grigi che delimitano uno spazio scenico privo di abbellimenti, nella penombra in cui l’attore vive l’attesa dell’entrata in scena: il re Agamennone inconsapevole del proprio destino, Clitennestra vendicativa e determinata nel fare appello al sentimento, Cassandra disperata per l’indesiderato dono della veggenza.
Nel percorso a ritroso verso le radici del teatro, dopo l’Amleto durissimo di qualche stagione fa, la Societas Raffaello Sanzio è giunta a un altro passaggio cruciale, alle origini stesse del teatro nella Grecia del V secolo. Lontano da una impossibile filologia, il gruppo di Cesena sembra voler scavare ancora più indietro nel tempo, nella essenzialità del rito originario, nella danza dionisiaca intorno al capro sacrificale che a un certo punto diventa citazione letterale, quando al centro della scena viene issato il corpo dell’animale sventrato: simulacro tragico del re ucciso reso ancora pulsante di vita meccanica da un flusso intermittente di aria compressa, alimentata da quei tubi che penzolano dall’alto, in uno spazio ibridato da una tecnologia anch’essa arcaica di tubazioni flessibili, pompe a stantuffo, boccagli di ossigeno evocanti un futuro archeologico alla Moebius.
Ma prima, perché quei fantasmi vivano, c’è da attraversare uno specchio, la soglia fra due diverse realtà, come per gli attori girovaghi dei Giganti della montagna o per l’Alice di Lewis Carrol. Ecco infatti che sulla scena dell’inizio si fa largo un grande coniglio dal camicione bianco, affannato per il ritardo e ansioso di attaccarsi al cavo di una rumorosa macchina elettrica, capace di procurargli un orgasmo da elettroshock. È lui il corifeo che dà voce a un coro di coniglietti, piccoli e di gesso questi, che esploderanno fragorosamente uno alla volta quando il nuovo potere affermatosi sul corpo straziato del re Agamennone avrà fatta provvisoriamente sua la pelliccia da Venere di Masoch che di quel potere è il simbolo visibile. E sarà ancora il bianco coniglio ad evocare le avventure di una Ifigenia in Wonderland, uscita fuori da un’altra favola crudele, che già si era vista bionda e in veste candida offrire il seno posticcio al sacrificio, per il buon esito dell’impresa guerresca; mentre ora una voce da fuori richiama per nome l’attore, Paolo Guidi, che ormai “sta sbagliando tutto”, si è smarrito in un delirio affabulatorio di cappellai matti e lepri marzoline.
Piuttosto che attraverso le parole, spesso stravolte del resto dall’amplificazione o sopraffatte dal rumore, è sui corpi degli interpreti che la tragedia prende forma e una crudele necessità, davvero artaudiana, in un rapporto strettissimo con la materia organica, sangue e merda e latte, che traduce quelle parole. Così a incarnare un’idea di regalità innocente avviata al macello si presenta la spigolosa dolcezza di un ragazzo down, inconsapevole della derisorietà della sua corona fasulla, mentre attaccato a un microfono reitera un vocalizzo o si abbandona a una danza circolare; e la femminilità opprimente di Clitemnestra ha il corpo debordante di un’attrice di lingua brasiliana, balena melvilliana che naviga nella tragedia su un letto rialzato e dice cose terribili con una cadenza cantilenante sempre uguale. E più avanti, alla fine, l’obliquo dio Apollo avrà ali ma non braccia e sarà esposto con la sua duplice mutilazione alla stessa nudità cui sono condannati anche gli altri interpreti.
Tutta la prima parte della trilogia, l’Agamennone, si dipana in una oscurità fragorosa, carica di tensione e di violenza, sulla linea espressiva degli ultimi lavori della Raffaello Sanzio e nel segno di una crudeltà che trova immagini sconvolgenti. Come il corpo nudo e grasso di Cassandra imprigionato in una teca trasparente che soffoca il suo monologo (e il coniglio a dirle: ma taci, stronza, stai zitta) e fa da cassa di risonanza ai suoi rantoli e ai pugni battuti e impotenti, quando le arriva addosso una morte invisibile da camera a gas che bagna le pareti di sangue. E ancora un getto di sangue macchia la porta vetrata sul fondo, annuncio dell’uccisione fuori scena di Agamennone, sottolineata da un teatralissimo applauso, mentre una sedia girevole comincia a ruotare da sola al centro di una scena rimasta vuota come quel trono casalingo.
La seconda parte invece, le Coefore, si rovescia figurativamente in un deserto lunare bianco e polveroso e in un silenzio privo di gravità, in cui avanzano i due nuovi protagonisti, Oreste e Pilade. Uguali nei corpi magrissimi dipinti di bianco, come due primitivi guerrieri, ma uno alto alto e l’altro più basso, sincroni anche nei movimenti lentissimi. Il coniglio che li ha introdotti silenziosamente è sparito dall’azione, una rarefattissima clownerie, attorno a quel capro appeso in croce e ossessivamente pulsante che incombe sul tumulo paterno. Come due clown lunari riappaiono infatti a un certo punto, un Bianco e un Augusto di glaciale luminosità, cappello a cono e naso rosso a palla, per incontrarsi con una Elettra che è una lumachina obesa in tutù che offre il seno e il latte e parole di miele al papà squartato. E lunare è l’immagine che appare più dietro in trasparenza, un Ermes sbiancato che pascola una coppia di asini bianchi.
Condannato al silenzio, questo Oreste è un Amleto che si arresta dubbioso di fronte all’azione, l’uccisione comandata dal dio di quell’enorme corpo materno. E sarà allora il suo compagno a munirlo di una protesi armata, di un braccio pneumatico che meccanicamente azionerà il coltello del matricidio, dietro il siparietto steso a mascherarne l’oscenità ma non gli schizzi di sangue. E che poi, staccato dal corpo e appeso in proscenio, continuerà fino alla fine a ripetere a vuoto quel gesto maledetto, mentre un terremoto squassa la scena su cui è rimasto solo Oreste, naufrago come in un dipinto del romantico Friedrich. Dopo è di nuovo il rumore e l’imporsi in primo piano di una parete spessa, interrotta da una grande apertura vetrata che imprigiona il protagonista insieme a un branco di scimmie. Come in una lanterna magica alla Bergman, le Eumenidi scorrono via veloci e private di dialettica, in un susseguirsi di apparizioni che fanno balenare sul fondo le figure di Clitennestra o di Apollo o impongono da ultimo un’Atena dalla grande maschera maschile che viene a dare suo voto determinante in favore del matricida. Non è infatti la nascita della democrazia quella che si celebra in questo processo più simile a un incubo notturno. Piuttosto l’affermarsi di un potere maschile nato dalla violenza che carica di pessimismo questo bellissimo spettacolo.
© gianni manzella