C’è un momento straordinario nella creazione anche per altri versi sorprendente che Romeo Castellucci ha voluto intitolare La democrazia in America, come il celebre saggio che il giovane Alexis de Tocqueville pubblicò nella prima metà dell’Ottocento, al ritorno da un lungo viaggio nel nuovo mondo. Sulla scena viene spinto un gruppo marmoreo. Un bassorilievo con figure mozze, il fregio di qualche monumento di epoca greca o romana, si intravedono pepli e corazze. Era già apparso in un momento precedente dello spettacolo. Ma ora quel reperto classico viene ruotato a vista, fino a mostrare la sua parte posteriore cava. Perché non di pietra si tratta ma di materia plastica stampata, frutto dell’officina creativa di Istvan Zimmerman e Giovanna Amoroso. Lì, in quel vuoto, in quella cavità della materia si manifestano due nativi americani. Tribù Chippewa, territori del nord est, 1789, informa la didascalia che poi proietta sul fondale la traduzione delle loro parole. Stanno imparando la lingua dei conquistatori, o più precisamente le loro parole.
Come a significare che bisogna guardare dietro a ciò che appare, dietro alla superficie delle cose. E che dietro e dentro quella classicità che mostra le ingiurie del tempo, dietro la democrazia (che dopo tutto da quella stessa classicità nasce) c’è altro da vedere. C’è un mondo che parla un’altra lingua. Che fosse questa l’intenzione dell’artefice, che questo volesse dirgli, lo spettatore non può giurarlo. Ma non importa. Anzi quel che conta è proprio la libertà offerta allo spettatore di creare un proprio pensiero, quando l’arte non vuole comunicare un messaggio ma offrirsi come strumento per guardare attraverso la realtà. È stata questa in fondo la rivoluzione novecentesca e il teatro ne è stato forse (allora) il paradigma.
Quel che di certo interessa a Castellucci, e da lungo tempo, è l’intreccio di questioni che si annidano nel linguaggio. Laddove le parole, le lettere stesse che le compongono, rimandano a un contenuto segreto che confina col sacro. All’origine c’è il logos, dopo tutto. Ed era infatti questa la trama di Genesi, probabilmente il vertice artistico della fu Societas, al cui culmine stava la parola impronunciabile, Auschwitz. Da cui poi si sarebbero diramate le tante tappe della Tragedia endogonidia. Qui si parte dalla glossolalia di un brano registrato in una chiesa pentecostale dell’Oklahoma, cioè dalla pronuncia di una lingua ignota e dunque misteriosa che rimanda alla mistica ma anche inevitabilmente all’ultimo Artaud rinchiuso nel manicomio di Rodez. Per introdurre così un gruppo femminile in divisa bianca, a metà strada fra severe majorettes e adepte dell’Esercito della salvezza, che fa danzare tante bandiere con le lettere che compongono titolo, Democracy in America, per poi ricomporle in una serie di anagrammi spiritosi quanto rivelatori, come “aerodinamic ceramic” o “car comedy in America” o “cocain army medicare”.
Intanto però alle loro spalle, seminascosta dal loro ritmico andirivieni, una ha cominciato a spogliarsi dell’abito e a spalmarsi addosso una sostanza rossa, fino a che resta solo il suo corpo nudo insanguinato. Ecco che allora la scena si oscura dietro il velo che scende ripetutamente sul boccascena, sono anzi più di uno i veli che si sovrappongono a modulare quell’oscurità che mette alla prova lo sguardo opaco dello spettatore. Sono ombre quelle che si intravvedono, ombre che si muovono in una continua danza di alti cappelli e mantelli svolazzanti. Mentre intanto scorrono le date di eventi maggiori e minori della storia americana. Senza un ordine cronologico o tematico, non c’è un progresso da raccontare. La Storia è un buco nero.
Dalle ombre emerge infine quella solitaria di un uomo che lavora faticosamente la terra. Foresta del New England, 1789, avverte la didascalia proiettata (e non sfuggirà poi la coincidenza delle date). Quando il velo si solleva sulla scena c’è una coppia di contadini oppressi dalla carestia e alle prese con le parole della loro fede, di fronte a un dio indifferente, che esiste altrove, all’esterno di loro, ma all’interno si è trasformato in superstizione, dice la donna (lei è Giulia Perelli, lui Olivia Corsini) che la fame ha spinto a rubare e che solo nella bestemmia urlata trova soddisfazione. In gioco c’è la base puritana di quella democrazia, che l’adesione incondizionata alla parola del Vecchio testamento può mettere in crisi.
È un pezzo di teatro condotto fino alle soglie del verismo, un dramma sociale non privo di un coté melodrammatico, come l’evocazione della vendita di una bambina di cui si era sentito il pianto, per comprare gli attrezzi agricoli necessari alla sopravvivenza (nella drammaturgia è evidente la firma di Claudia Castellucci). Se non fosse che anche questo pezzo così ideologico si innesta in quel magma oscuro di immagini e di suoni e vedremo infatti la donna strapparsi di dosso il vestito e attraversare una vera e propria possessione che la risucchia in un balletto di ombre rosse. E per un lungo momento incomberanno poi sulla scena solo segmentati elementi tubolari calati dall’alto, trombe sonore che amplificano le musiche di Scott Gibbons, quando il racconto lascia di nuovo il campo alla visione.
Come coniugare Brecht ad Artaud, potremmo dire consapevoli dell’approssimazione del postulato. Ma questo è il nodo. E non è facile scioglierlo nemmeno per La democrazia in America. La sfida di Castellucci è aprire un interstizio, forzare quel vuoto che precede la nascita della democrazia (non solo in America). Un attimo prima che dal coro danzante si stacchi la voce del primo agonista. Non il mondo liquido teorizzato da qualcuno ma un mondo concavo appunto. Fa pensare alla natura scavata di Giuseppe Penone, scultore di vuoti.
Non è un caso che l’ultimo gesto lasciato dallo spettacolo, e gesto veramente citabile, sia lo spogliarsi della pelle di lattice che le rivestiva da parte delle due attrici che avevano dato voce al dialogo filosofico dei due nativi americani. Riappropriarsi dei propri corpi e allontanarsi lasciando appesi lì quei due involucri vuoti. Insieme a una domanda, che con le parole si può anche uccidere.