Qui si gioca con i simulacri. Con le copie della copia. Coi riflessi del riflesso. Unica realtà è la fuga o lo slittamento. Il gioco a nascondino con il senso. Come ha ragione il Generale Puskin che conciona in mutande issato su uno sgabello. Il niente sta per il tutto, e tutto e niente stanno per qualcosa che sta più nascosto. Peccato che nessuno lo stia a sentire, in quella confusione di checche e monatti, di infermiere pronte a tutto e mondine da Riso amaro, di stupri goduti dal giardiniere, di tubi della doccia usati a mo’ di telefono… Qui, cioè sulla scena di Recidiva, si gioca con i topi e con i topoi. Si fanno a pezzi i luoghi comuni, per ricomporne i frammenti in un nuovo universo, in una architettura barocca dove tutto si tiene in equilibrio. Che altro aspettarsi del resto da un lavoro scritto dichiaratamente “per Copi”, ovvero guardando nello specchio dionisiaco di Raul Damonte, gran maestro di spaesamenti, argentino di Francia, disegnatore di fama e attore suo malgrado però fedele all’autore, cioè a se stesso, alle sue storie sbrindellate, capace di ghignare anche sull’aids che l’uccideva.
Che piacere però rileggerlo sulla pagina, questo divertentissimo Recidiva, incastonato fra l’amletico Mal-d’-Hamlée il dittico dedicato ad Artaud e Rimbaud, germi infettivi del mal francese di Enzo Moscato. Vien voglia di correre a mettere sul giradischi Patty Pravo per ritrovare anche l’incanto sonoro di quello spettacolo che all’Arsenale veneziano evocava arcane apparizioni. (Di Mal-d’-Hamlé invece par di risentire soprattutto il freddo gelido della notte, di luglio, in una cava nei pressi di Santarcangelo, e un sentimento doloroso, violento). Quattro testi riuniti sotto la sigla fuorviante di Quadrilogia di Santarcangelo (Ubulibri, pp. 142) ma distanti l’uno dall’altro come i punti cardinali, come fossero le stelle che ci guidano in direzioni opposte. Quattro ricreazioni “a partire da” o a trompe-l’oeil o come la si vuol chiamare questa scrittura mutevole, instabile, sempre lì per cancellarsi e farsi di nuovo.
Ci aveva un po’ ingannato, all’inizio, Enzo Moscato, con quelle sue pièces nere nere ma così bien faites, con la divisione in atti e le didascalie precise, i personaggi in fila e persino la traccia di una trama. Anche se storie e trame slittano di continuo in un universo fantastico. Storie di veleni all’ombra delle litanie religiose e delle pratiche magiche. Cupe réveries di femminielli tirati su sognando di dar forma a creature perfette, prodigi di incontaminata bellezza. Officianti e vittime del rito, i travestiti ne sono l’immagine esemplare. Fino al culmine di Bordello di mare con cittàche è una commedia di perfidia tale da sfidare la rappresentazione scenica, finora mancata, in quell’assumere la prostituzione a metafora ossessiva, livello più alto della mercificazione. Giacché Moscato si diverte a giocare con i luoghi comuni, ma sceglie poi una serie di situazioni assai disturbanti rispetto all’immagine convenzionale di Napoli paese d’o sole. Già Partitura, il lirico testo che chiudeva quell’Angelico bestiario degli anni ottanta, doveva mettere sull’avviso a proposito della piega di una ricerca che tradiva allora il napoletano per inventare una lingua creola, molto contaminata.
Ci si interrogava piuttosto sul suo rapporto con una tradizione napoletana, di teatro napoletano, quanto Viviani e quanto (poco) Eduardo, quanta rottura e quanta continuità rispetto a maestri che Moscato non ha mai avuto. Certo che conta Napoli, nell’esperienza artistica di Moscato. Non per niente è cresciuto nei vicoli, su ai Quartieri. E ha attraversato l’esperienza dirompente, anche sul piano artistico, del terremoto. Conta quella lingua che davvero è madre, sfregiata per amore, per orrore del tradimento. Lingua teatralissima, per la capacità carnale di farsi prendere dal corpo dell’attore e insieme di alludere a quel qualcosa d’altro, che sta più nascosto, ch’è da sempre la ragione del teatro. In realtà Moscato danza sui bordi di Napoli come sui margini delle parole. Traduce la sua marginalità in un sentimento del limite, una zona di passaggio. Ne vien fuori una Napoli trasgressiva e colta insieme, miscuglio di alto e di basso, tutto e niente (il nome Popper richiama vuoi pensiero filosofico che pratiche tossiche).
Stiamo dunque dentro l’ipermercato della lingua (ci avete fatto caso che i grandi ipermercati sono il luogo in cui si realizza davvero la cosiddetta multiculturalità?). Una lingua infetta delirante eccessiva. Destrutturata in schegge sonore prelevate da cinque o sei lingue diverse e ricomposte in un puzzle da semiologo giocherellone. I must be crudele, ’nfame, dice il principe Amleto nella sua ronda d’eloquio. Dove locopuò essere alternativamente un luogo o un pazzo e ’a pazzia è anche una non-pazzia, con l’articolo trasformato in alfa privativa. Un’abbuffata di parole da assaporare e poi inghiottire e poi sputare di nuovo fuori, servite con un fuoco d’artificio stilistico dal gran cerimoniere ’e chesta lengua. Densa come i liquidi corporei, è seme, sangue, sudore. Lingua, carne, soffiosi intitola il frammentato testo dedicato ad Artaud. Qui il cerchio si chiude, nell’evocazione di una peste della lingua che trova nelle città di mare il luogo più esposto al contagio. Mare, male. Quel che conta è lo spaesamento, l’essere comunque da un’altra parte. L’unica realtà è la fuga, dice l’attore che ancora misura il terrore di essere in scena. E si fa forte del disordine invocato dall’ultimo Eduardo, della necessità di lasciare tutte le cose ’mbrugliate dietro di sé. Il senso da dare alle cose può essere pena e godimento, mai un diritto precostituito.