Che cos’è un uomo? Le parole di Amleto cadono da lontano nell’oscurità gelata dove Orazio e Marcello misurano lo spazio avanti e indietro, seguiti dal lume di una lampada, avvolti in pesanti pellicce. Una pioggia sottile scende come un velo, attorno al lampione che campeggia sul fondo. È un mondo di gelo e di acqua quello in cui Eimuntas Nekrosius ha inscenato il suo straordinario Hamletas. Un mondo di ghiacci e di foschie. Una goccia d’acqua più dura picchia martellante e ossessiva su un tamburo appoggiato a uno sgabello alla ribalta, al di sotto della lama dentata di una sega circolare appesa in alto al centro del proscenio, su cui rimbalza un fascio di luce. Un bagliore nel buio. Un’apparizione scacciata dal canto di gallo che prorompe dalla voce strozzata dell’uomo.
Che cos’è un uomo, se il suo tempo si consuma solo nel dormire e mangiare, si chiede Amleto. È un giovane pensoso, il principe di Danimarca. Ama interrogarsi sui grandi temi esistenziali. Declamando sotto la pioggia “fragilità il tuo nome è donna”, mentre la camicia leggera gli si sfalda sulla pelle come carta. Malinconico, certo. Ma con metodo. Cioè con un pizzico di follia. Non bisogna far troppo caso al suo vestito nero, da intellettuale qual è, più che per lutto. Eccolo presentarsi infatti con le brache calate, fra le risate della corte. Il re e la regina, sua madre. L’allampanato Polonio. Un po’ imbarazzati da questo ragazzone biondo dai capelli corti e diritti sulla testa, che qualcuno si ostina a dire punk mentre è solo un segno generazionale come il piccolo orecchino. È una rockstar dalle sue parti, Andrius Mamontovas, dicono le note di accompagnamento; per noi semplicemente un attore credibile, giovane quanto serve, per niente intimorito dal ruolo.
C’è ancora spazio, all’inizio, per quella vena grottesca che sempre attraversa a onde il teatro di Nekrosius. Risuonano ancora gli scoppi allegri di musica che tirano verso il vaudeville, come nelle sue geniali messinscene cechoviane. La Danimarca è una prigione, ma questi danesi che parlano lituano non sono tanto lontani dai polacchi di Jarry. C’è un po’ di padre Ubu e di madre Ubu in questo re usurpatore e in questa regina divisa fra troppi affetti in famiglia. Quando irrompe in scena la giovane Ofelia, alta alta con un vestitino verde e sempre di corsa, sembra la fidanzata di Popeye. E ci sono poi i tre fools, bravi a cantare come a muoversi in equilibrio sui rulli cilindrici, che giocano di volta in volta il ruolo degli attori o dei becchini.
Quasi a voler fare equilibrio alla durezza della scena. Siamo in un’epoca del ferro, dalla metallurgia elementare. Lastre di acciaio. Sedie metalliche dagli alti schienali, unite anche a formare un divanetto. Marchingegni di ferraglia. Cremagliere per montare trappole per topi. Macchine di tortura che potrebbero uscire da un disegno di Kantor.
Ma basta l’incontro con lo spettro del padre a dare un’impronta diversa allo spettacolo. Non più un bagliore che subito si spegne, una muta apparizione cui si stenta a credere. È una presenza ben concreta quella che avanza sul fondo, con indosso una candida pelliccia che rende ancora più glaciale il blocco di ghiaccio che stringe al petto, dentro cui si intravede la sagoma di un coltello. Ed è un lungo balletto quello che poi inizia col figlio, e un momento di teatro bellissimo e struggente. Denso e delicato. Lo abbraccia e lo bacia, questo padre venuto a raccontare come fu ucciso a tradimento (è il bravissimo Vladas Bagdonas, uno dei volti costanti del teatro di Nekrosius). Gli lava i piedi con quel ghiaccio che ha già cominciato a sciogliersi. Glielo strofina sul viso. Si abbandona al moto accelerato di una sedia a dondolo. Lui, Amleto, alla parola assassinio ha come un sussulto, non vorrebbe proprio averla sentita. Furiosamente spacca il ghiaccio per ritrovarvi quel coltello che conteneva, mentre l’altro scompare in una fiammata, acqua e fuoco, stati opposti della natura, lasciando dietro di sé il simulacro della pelliccia appesa a quel disco dentato, in cima alla scena.
Siamo a un nucleo tematico centrale nell’Amleto. Cosa fare del pugnale lasciato dai padri. Cosa fare della loro eredità. E chi vuole, chi ha voglia, può cercarvi tutti i significati politici e sociali possibili. L’Amleto di Heiner Müller voltava le spalle alle rovine d’Europa. Non è questo l’interesse principale di Eimuntas Nekrosius. Che sembra interrogarsi piuttosto sul mistero di questo testo tante volte esplorato e ancora capace di sorprendere. Si interroga sui padri più che sui figli.
Una ricerca indiziaria, come quella che impegna il protagonista. Dolorosa anche quando assume i toni farseschi della clownerie. Ha scelto il teatro come strumento dello smascheramento, ma non servono nemmeno gli attori, basta il contagio di un po’ di trucco sul viso e la recitano da sé la pantomima dell’assassinio, i colpevoli. Va in convento, urla a Ofelia, ed è il momento in cui l’ama di più. Si scaglia contro la madre, sapendo di non poterla colpire. Vorrebbe uccidere l’usurpatore, ma come farlo se quello è già morto, è un patetico tiranno consumato dalla malattia del suo gesto che si balocca con enormi calici trasparenti, in cui si riflette la fragilità di ogni destino umano.
Si va verso un’azione sempre più astratta, in progressione con lo svuotamento della scena. Polonio annega letteralmente in un bicchier d’acqua, dentro la cassa in cui si era rinchiuso per spiare il colloquio di Amleto con la madre. La scena di follia e morte di Ofelia è una solitaria danza a mosca cieca conclusa con un salto verso l’alto che la lascia immobile a terra. Così anche l’avvelenato duello finale non avviene a colpi di spada, è puro pensiero, un oscillare ritmico delle lame che frustano l’aria, interrotto dal fragoroso infrangersi di una noce di cocco contro un piano di metallo.
Amleto e lo spettro del padre sono di nuovo uno accanto all’altro. Soli, immobili sotto la goccia che ha ripreso a battere il suo tempo sul tamburo. E di nuovo è un momento di grande commozione, di calcolata teatralità. Il padre ha ucciso il figlio. E ora lo piange, percuotendo con furia il tamburo in un lungo lamento funebre. Lo stringe. Gli bacia le mani. Fortebraccio non arriva. Continua a cadere la pioggia. Il resto è silenzio.
(1997)
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Sono tre sorelle le streghe del Macbethsecondo Eimuntas Nekrosius. Tre ragazzone alte e vigorose, vestite di nero da contadine, con i fazzoletti colorati annodati in capo. Corrono e saltano. Preparano scherzi infantili e si nascondono per vedere l’effetto che fa. Si spaventano per i fuochi magicamente accesi. Si interrogano con uno sguardo di muta sorpresa. Quando sono stanche dei loro giochi si abbandonano spossate a terra, ad ascoltare i suoni del mondo circostante. Le poche parole che dicono, a turno, le pronunciano gambe all’aria, rovesciate a guardare dentro il grande calderone di ferro che hanno portato al centro della scena.
È già tutta lì, la chiave della cerimonia allestita dal geniale regista lituano e dai suoi bravissimi attori. In quel lungo atto senza parole con cui inizia, fatto di gesti e di suoni, di musiche e rumori che arrivano da lontano, di pause dilatate e di silenzi. È lì l’intuizione che lo guida Verso Macbeth, come si è intitolato lo spettacolo che ha chiuso magnificamente a Palermo il “Festival sul novecento”, sul palcoscenico del teatro Biondo, a testimonianza di un lavoro di costruzione ancora in corso, non cristallizzato in una forma compiuta.
Una cerimonia demoniaca. Una magia nera. Le streghe che l’aprono e chiudono, accompagnano per tutto il tempo l’azione sul palcoscenico o nel palco di proscenio che hanno eletto a dimora, dove si arrampicano con spericolate doti acrobatiche. Da cui si affacciano o tirano pietre, inquadrate fra una coppia di corvi neri impagliati. Ma dell’evocazione di un demone interiore si tratta. Il demone del male o dell’ambizione o di quel che si vuol leggere nella tragedia di Shakespeare. Di una condizione della coscienza si parla. Non ci sono pugnali in questo dramma. Neppure quello simbolicamente racchiuso in un blocco di ghiaccio con cui il giovane Amleto raggelava la vendetta reclamata dallo spettro paterno, nella precedente straordinaria messinscena shakespeariana di Nekrosius. C’è semmai l’immagine più onirica e terribile dell’ascia che passa di mano in mano e moltiplica i colpi e si ritroverà piantata nella schiena del re assassinato, quando questi tornerà da morto vivente fra quegli altri fantasmi come in un filmaccio horror.
Nekrosius ha scelto la via di una semplificazione assoluta. Cancellando tutto il superfluo dalla vicenda e da una scena vuota, avvolta in un uniforme colore nero. L’unico forte segno figurativo è la trave appesa che oscilla sul fondo, scandendo un tempo immobile. Gli unici oggetti presenti sulla scena sono quattro seggiole e quel pentolone che si moltiplica rovesciato a formare un rilievo o riempito d’acqua per l’inutile tentativo dei protagonisti di lavarsi di dosso un sangue invisibile.
Bello è brutto e brutto è bello, dicono le streghe. La battaglia è vinta e persa. E questa convivenza dei contrari percorre tutta la tragedia. Vera opera al nero, proprio per l’impossibilità di isolare il male nel facile involucro della condanna morale. Macbeth e Banquo, il carnefice e la vittima, sono identici anche fisicamente nell’immagine con cui si presentano, pesanti e barbuti, tenendosi per mano come due vecchi scolari di una classe morta, con la stessa divisa nera di panno e gli scarponi da viandante. Portando sulle spalle uno zaino da cui spunta il fusto di uno spoglio alberello, che prefigura l’avanzare della foresta di Birnan. E non c’è distanza morale fra il sir e la sua lady, che è alta ed elegante nel lungo mantello nero, col suo caschetto di capelli rossi ben pettinati. Quando si incontrano, si muovono abbracciati coprendosi gli occhi a vicenda, accecati l’uno dall’altro.
Il vero rapporto dialettico, persino erotico, è quello di Macbeth con le tre ragazzacce che se lo baciano con passione, quando non lo tempestano di pietre, si commuovono per lui, vorrebbero consolarlo. Sono loro il tramite di quel mondo naturale che dalle parole del testo si trasferisce sulla scena come una ossessione dell’animalità, corrispettivo di uno stadio barbarico dell’umanità. Rospi, corvi, uccelli gracchianti, il ronzio degli insetti.
Anche le parole della tragedia subiscono una mutazione, cambiano il loro peso specifico. Nekrosius ha lavorato piuttosto negli interstizi del testo, privilegiando l’azione alla dizione, dilatando gli spazi che si aprono fra le battute, amplificando le pause. La sua scrittura scenica è come una lunga didascalia, una nota a margine. L’unico modo forse in cui si possono pronunciare insieme vita e morte, luce e tenebre, come nella poesia di Marina Cvetaeva. Tutto quel che conta avviene fuori dal testo. E sta qui molto del fascino di questa operazione teatrale così evidentemente lontana dalla compiutezza, così avara nel catturare l’emozione immediata dello spettatore e pure già percepibile come un capolavoro. Le battute vi cadono dentro come note musicali, con lo stesso ritmo distillato del pianoforte o le accelerazioni e i crescendo improvvisi delle percussioni che attraversano la partitura musicale parallela. Una fanfara preannuncia l’ingresso della corte regale, in mezzo a grandi risate, ed ecco che le gag spezzano l’immobilità della situazione scenica, richiamando l’amore del regista per il vaudeville.
Nekrosius resta uno straordinario creatore di immagini. Macbeth scrive alla moglie con la zampa di un corvo e la lettera diventa poi un pacco umano avvolto in un tappeto. Le streghe infilano i piedi in stivali colmi d’acqua. E la morte di lady Macbeth per la perdita del sostegno che la sosteneva, allo spezzarsi di una corda, va ad aggiungersi facilmente ad altre memorabili immagini dei suoi lavori.
Ma tutto conduce poi a quel vuoto, a quella solitudine in cui il protagonista compie la sua battaglia. Non ci sono più armi da sfoderare. Non c’è nemico esterno con cui combattere, nella scena bersagliata dalle pietre che piovono anche da quattro cassetti appesi in alto. Tutto si consuma in una lunga marcia a passi pesanti, senza fine, finché irrompono di nuovo le streghe gracchianti e calano le luci. Più di quattro ore sono passate dall’inizio della serata. C’è stanchezza negli occhi e il senso vivo della forza del teatro mentre si esce nei rumori di Palermo.
(1998)
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Ragiona troppo il giovane Jago. Con gli altri ragazzi gioca volentieri. È un ragazzo anche lui, simpatico e sportivo. Ma poi reclama una solitudine che senza avvedersene gli appartiene. Ha vergogna dei sentimenti, nell’esibita passione di Otello vede qualcosa di osceno cui reagisce con uno sprezzo integralista. Di questa passione vuol vendicarsi. Otello invece è solo sempre, come uomo d’azione e come uomo innamorato. Appena arriva pianta la spada per terra, in un gesto di possesso. Duro e innocente, come tutti i solitari.
Prima di Otello c’è Jago. Prima di questo straordinario evento teatrale c’è la lunga ricerca compiuta da Eimuntas Nekrosius e dai suoi attori, due anni e più, che la Biennale veneziana ha permesso di seguire a passo, dai primi “schizzi” in cui già si lasciava presagire quell’idea d’acqua come sentimento pervasivo della tragedia di Shakespeare all’emozionante immersione nel crogiolo creativo dell’artista, l’estate scorsa.
Che ci sia un metodo, nel teatro di Nekrosius, è difficile negarlo. Certo lui non ama parlare dei segreti della sua fucina creativa, e non ama teorizzare. Ma è davanti agli occhi la capacità dell’artista lituano di amplificare visivamente la suggestione di un dettaglio, una battuta o una didascalia, fino a farne un’immagine che viene poi ricomposta nella struttura dello spettacolo. Come nella scena straziante e tenera e buffa del lungo addio di Desdemona alla casa paterna. Arriva china sotto il peso di una lunga porta, soglia domestica che si è chiusa alle sue spalle, velata a lutto da un nastro nero. Da dietro una mano, la mano di Otello, le porge da bere, a forza, un calice dopo l’altro. Quasi che dovesse svuotare tutto il mare che ha scelto di attraversare per seguire il moro, imparare subito a sentirne tutto il sapore. Quel mare che Otello percorre tirandosi dietro da solo una flotta di imbarcazioni legate a corde, gusci vuoti scavati nel legno che assomigliano a piccole bare. Ed ecco che sul fondo calano vele ammainate che fanno della scena il ponte di una nave, e diventeranno poi amache in cui riposare.
Nekrosius opera, potremmo dire, una sospensione del dramma. Laddove il teatro è compressione dell’azione drammatica nella breve durata del tempo scenico, Nekrosius opera al contrario una decompressione, libera il tempo scenico dall’ansia dell’azione e lascia che l’attraversi la vita. La lunga durata dei suoi lavori non nasce da un eccesso ma da una rarefazione. Che alla fine Otello ucciderà Desdemona, lo sappiamo bene. Tutto è già successo. Quello che sapete, sapete, dice Jago. Che altro c’è da sapere? Nekrosius racconta come Otello uccide Desdemona (non perché, intendiamoci). Come continua a ucciderla. Quel lungo morire cominciato come un gioco, lui che la prende fra le braccia e la spinge via con violenza, tenta di afferrarla per il collo e la bacia, lei che si difende e si aggrappa a lui, mentre il ricorrente tema musicale per pianoforte e tromba gonfia la commozione del momento. E gioco sembra alla fine quel loro duetto, quel divincolarsi nell’intreccio delle braccia chiuse ad anello, in un legame d’amore resistente a qualsiasi contorcimento, finché non lo spezza il gesto di lui che serra nell’incavo del braccio piegato il collo di lei.
La tragedia di Otello è una tempesta dell’anima, che si riflette in quel continuo rumore d’acqua creato anche a vista, sul fondo, da una coppia di gemelli che assolvono la funzione di fools. Acqua che cola anche dalle due porte di legno appoggiate ai lati. Uno sciabordio continuo, un rumore di risacca che viene anche dalle sonorità lontane di una musica dalle tonalità wagneriane. Non la follia amorosa, ma la coscienza di essere soggetti una forza ingovernabile. Questa è la diversità del “moro” Otello, a cui un grandissimo Vladas Bagdonas presta un’impronta fisica potente, un segno anche generazionale che si fa marchio della tragedia. La gelosia dell’uomo maturo per quella giovinezza, attorno a lui stanno solo ragazzi. Lì sente in tradimento della sua sposa bambina Desdemona, la lunga e sottile Egle Spokaite, felice in quei giochi di ragazzi. Uccide, Otello, e tutto finisce con quel gesto finalmente chiaroveggente. C’è solo da tornare all’acqua, nella bara scavata nel legno presente dall’inizio in scena come un destino. E quando tutto è finito si ode un fischio lancinante. Cassio governa a Cipro ma qualcosa è si è spezzato nell’ordine del mondo.
(2001)
© gianni manzella