Arrivano dal fondo della sala con passi ritmati, pesanti, tutti vestiti di nero. Abiti da lavoro più che quelli della festa. Qualcuno reggendo in alto sopra la testa una seggiola, gli altri con una consumata valigia in mano. C’è anche un vecchio rinsecchito che si portano dietro seduto inerte su una sedia, il capo abbassato sul petto. Quando arrivano sul palco, il loro moto diventa una corsa circolare che poi si disfa in un mucchio confuso prima di ritrovare un ordine, schierandosi tutti in fila lungo il proscenio, in una di quelle immagini che marcano nella memoria dello spettatore il teatro di Emma Dante, da mPalermu alle Sorelle Macaluso. Che vuol dire nello stesso tempo, ormai lo sappiamo, presa di possesso dello spazio e impossibilità di uscirne.
Perché siamo a Spoleto, all’interno della duecentesca chiesa di San Simone, severa e sfregiata, quasi un’allegoria della resistenza della bellezza ai disastri umani; siamo qui per assistere alla riscrittura che la regista palermitana ha tratto dal mito di Edipo con i giovani attori della scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo, che ha trovato finalmente sede negli spazi dei Cantieri culturali alla Zisa. Rinnovando l’esperienza felice dell’Odissea di qualche anno fa, senza scordare un’altra più recente esperienza di scuola, le Baccanti barbariche e sberluccicanti realizzate a Roma. C’è del metodo nell’approccio di Emma Dante alla tragedia greca.
Esodo si intitola. E la prima domanda che pone allo spettatore è proprio sul significato da attribuire a quel termine dal sapore biblico che evoca la partenza di una comunità dal proprio paese ma che ha assunto nel tempo una molteplicità di risonanze. Non è l’unica domanda, perché sedendoci al nostro posto abbiamo trovato un cartoncino con un brano del Vangelo secondo Matteo. Quello che dice: ero forestiero e mi avete ospitato. Insomma, è un bel viatico quello di cui ci carica la regista.
Intanto dalla fila hanno cominciato a udirsi voci di uccelli, versi animali, un coro naturale che un poco per volta cresce di intensità fino a far esplodere il gruppo che l’ha prodotto. E sul fondo si proiettano le ombre di alberi spogli, uno scheletrico bosco di notte. O un bosco sacro, pensando a Edipo giunto infine a Colono, la sua ultima meta, alle porte di Atene. Come a un segnale, parte allora una sarabanda. Tutti corrono ad aprire le valigie, ne tirano fuori vesti colorate. Le ragazze si cambiano d’abito a vista. Le sedie vengono accumulate sul fondo. Ai lati spuntano tubi che si aprono come ombrelli e spruzzano acqua per lavare i panni che poi restano appesi lì sotto.
Si forma insomma un festoso accampamento di gente nomade che è giunta ai margini della città e lì si ferma. Davanti a noi, gli abitanti della città. C’è la sposa prosperosa col suo abito nuziale e un giovane dagli occhi vuoti e un altro che indossa paramenti sacri. I ragazzi hanno tirato fuori degli strumenti musicali, una fisarmonica, un tamburello, una chitarrina, e danno il via a un ballo collettivo, accattivante e sensuale. Le ragazze muovono i fianchi e scoprono le gambe. Quel che serve a creare un contesto in cui loro possano offrire a noi, gli abitanti della città (non riusciamo a toglierci dalla testa che questo siamo, e lo saremo anche uscendo da lì), il racconto di una storia. In cambio della nostra attenzione.
Si fa avanti un attore (Sandro Maria Campagna, uno degli attori storici della compagnia di Emma Dante) e dice: Io sono Edipo, un miserabile. Ed ecco anche la sua famiglia, la sua sposa e madre Giocasta, è la ragazzona in abito bianco; le due figlie Antigone e Ismene, che gli sono anche sorelle; il cognato Creonte e il vecchio Laio, che poi è quella specie di fantoccio rinsecchito inchiodato alla sedia, chissà perché ci viene in mente la maschera grigia di Ballarini. La storia che raccontano non è nuova, non è la prima volta che la raccontano. Anche noi la conosciamo. Davanti all’indovinello sempre uguale della Sfinge, l’attore fedele alla sua parte non può che dare sempre la stessa risposta e tutte le volte indovinare.
Questo matrimonio non s’ha da fare gli dicono, cioè glielo dicono in una (a lui) più familiare lingua siciliana, che però è anche la lingua della lontananza che non si colma, la lingua della diversità. E chissà quante altre volte avrà già replicato quello scontro con il cieco Tiresia che se ne sta a suonare l’Inno alla gioia con un flautino e non vorrebbe proprio tirare fuori quella vecchia storia di vaticini funesti che una volta proferiti devono per forza avverarsi. Ma quello che è scritto non si può cambiare. Meglio concentrarsi su quello che questa allegra compagnia ci mette di suo. Come lo strepitoso rosario urlato dalle ragazze, un concerto di strepiti e vocalizzi incomprensibili, che sta alla pari con quello indimenticabile (per chi c’era) della lontana Gatta Cenerentola.
Insomma per Edipo le cose vanno come debbono andare, mischino. Abbiate pietà, è la sua ultima invocazione. Sigillata da un coro a bocca chiusa. Dopo che la tragedia si è consumata e loro, gli attori, possono tornare a schierarsi tutti insieme lungo la linea di proscenio. Questa volta per gli applausi. E quando cerchiamo di rimettere insieme tutti i pezzi, Sofocle e il Vangelo di Matteo e i nomadi alle porte, viene alla mente che tutte le parole che il teatro di Emma Dante mette in gioco – l’accoglienza, il destino, la differenza, lo straniero… – si inscrivono appunto nello spazio simbolico del rito teatrale. E per questo capaci di andar oltre il loro valore “civile”, per affondare nella carne e nella mente.
© Gianni Manzella