La ricordiamo bene la sera in cui si era incontrato per la prima volta il teatro di Eimuntas Nekrosius. Era la primavera del 1989, anno cruciale per le sorti dell’est europeo e anche nostro, come poi si sarebbe capito. La caduta del muro che divideva in due il continente non era ancora avvenuta. Ma un vento aveva cominciato a spirare. La sala del teatro, a Parma, era tutta rivestita con i colori della bandiera lituana. E del resto non era difficile leggere un sottotesto politico nella commedia di Čechov che ci proponeva l’ensemble di Vilnius. Casa e patria istintivamente coincidevano, sul palcoscenico, in uno Zio Vanja tenuto in bilico fra l’intimismo dei sentimenti e il grottesco delle situazioni – per giungere al “continueremo a vivere” che si trasformava in grido di rivolta. Ma sorprendente era stato allora soprattutto il visionario Pirosmani Pirosmani, ritratto di un misterioso pittore georgiano dell’Ottocento che approdava a una orgogliosa rivendicazione delle ragioni dell’arte. Sorprendente soprattutto per le immagini che ci proponeva.
Aveva ben presto acquistato fama di uomo difficile, il regista lituano. Quasi inavvicinabile. Anche l’aspetto fisico sembrava sottolinearlo. Ma era una maschera con cui difendeva il proprio lavoro. Come la violenza esibita nei confronti di un proprio attore, il magnifico Vladas Bagdonas, durante una prova aperta del seminario veneziano in cui, anni dopo, andava costruendo un non meno sorprendente Otello. Due anni e più di lavoro, che la Biennale veneziana aveva permesso di seguire a passo, dai primi “schizzi” all’emozionante immersione nel crogiolo creativo dell’artista.
All’inizio era stato soprattutto Čechov l’oggetto della sua ricerca, fino all’apice toccato dalle giocose Tre sorelle, nei cui giochi era facile ritrovare più Mejerchol’d che Stanislavskij – una vena grottesca attraversa sovente il teatro di Nekrosius; vi risuonano scoppi allegri di musica che tirano verso il vaudeville. E tuttavia così profondamente cechoviano nel nascondere amarezze e rimpianti dentro una risata. Ma poi era arrivato Shakespeare. Tre spettacoli memorabili, uno dopo l’altro, a partire dall’Hamletas inscenato in un mondo di ghiacci e di foschie, prima di approdare a Macbeth e Otello. Nell’immagine con cui si apre una goccia d’acqua picchia martellante e ossessiva su un tamburo appoggiato a uno sgabello alla ribalta, al di sotto della lama dentata di una sega circolare appesa in alto al centro del proscenio, su cui rimbalza un fascio di luce.
Straordinario creatore di immagini, si è detto. O dovremmo dire evocatore di immagini, giacché queste non nascono da un complesso apparato scenografico ma si precisano soprattutto a un livello interiore, dove tocca allo spettatore elaborarle. Quello del maestro lituano è fin dall’inizio un teatro povero, costruito con materiali quotidiani che sovente richiamano gli elementi naturali. Un teatro di terra e fuoco, di acqua e pietra, di vetro e mattoni.
Impossibile dimenticare, per restare ad Hamletas, l’immagine candida del padre che avanza stringendo al petto un blocco di ghiaccio, dentro cui si intravede la sagoma di un coltello. Ed è un lungo balletto quello che poi inizia col figlio, e un momento di teatro bellissimo e struggente. Lo abbraccia e lo bacia, il giovane Amleto, questo padre venuto a raccontare come fu ucciso a tradimento. Gli lava i piedi con quel ghiaccio che ha già cominciato a sciogliersi.
Che ci sia un metodo, nel teatro di Nekrosius, è difficile negarlo. Certo lui non amava parlare dei segreti della sua fucina creativa, soprattutto non amava teorizzare. Ma resta davanti agli occhi la capacità dell’artista lituano di amplificare visivamente la suggestione di un dettaglio, insieme a quella contraria di concentrare in un gesto una pagina intera, fino a farne un’immagine poi ricomposta e variata nella struttura dello spettacolo.
Nekrosius opera, potremmo dire, una sospensione del dramma. Laddove il teatro è compressione dell’azione drammatica nella breve durata del tempo scenico, Nekrosius opera al contrario una decompressione, libera il tempo scenico dall’ansia dell’azione e lascia che l’attraversi la vita. La lunga durata dei suoi lavori non nasce da un eccesso ma da una rarefazione. Che alla fine Otello ucciderà Desdemona, lo sappiamo bene. Tutto è già successo. Quello che sapete, sapete, dice Jago. Che altro c’è da sapere? Nekrosius racconta come Otello uccide Desdemona. Come continua a ucciderla.
Dopo la lunga stagione shakespeariana, Nekrosius aveva affrontato di preferenza testi estranei alla letteratura drammatica. Opere spesso monumentali che richiedono di comprimere l’azione nella durata del tempo scenico, per quanto dilatata a parecchie ore; operando quella sospensione del dramma che consente al tempo scenico di essere attraversato dalla vita. Come se il regista, dopo aver toccato con Shakespeare il vertice della forza drammatica della parola, nel canone occidentale, avesse sentito il bisogno di riparare in una zona franca, dalla sinfonia agreste delle Stagioni alla liricità rarefatta del Cantico dei cantici; per approdare al romanzo russo, Anna Karenina e Idiota, e poi alla Divina Commedia giovanile e sognante giunta a compimento sul palcoscenico del vicentino teatro Olimpico. Con esiti non sempre ugualmente compiuti, che ci restituivano tuttavia l’immagine di un artista sempre alla ricerca di un percorso da esplorare. Uno dei più grandi.