Che bello ritornare all’interno di un vero teatro, il Bonci di Cesena, con le parole di Mariangela Gualtieri e i corpi fatti agire da Cesare Ronconi su una scena dilatata a invadere tutta la platea svuotata dalle poltroncine. I due artefici del Teatro Valdoca hanno messo a frutto la forzata pausa delle attività pubbliche per mettere in atto insieme a un inedito gruppo di interpreti il lungo lavoro preparatorio che li ha portati fino a qui. Enigma si intitola questa nuova creazione, e già dal titolo e dall’impianto scenico può richiamare la struttura del teatro greco, con l’orchestra liberata per i movimenti corali e gli spettatori riuniti tutt’intorno nell’arco dei palchi.
Enigma è parlare copertamente, è parola velata, rimanda all’incontro di Edipo con la Sfinge. Non siamo lontani dal territorio del tragico, anche se è il tragico che possono frequentare coloro che abitano il dopo della tragedia. Da lì viene piuttosto quel sentimento di sacralità che si coglie nei gesti, dove gli spettatori si pongono come comunità transitoria partecipe del rito segreto che si svolge davanti a loro. Del resto vi si ascoltano parole come: un tempo si credevano gli umani d’essere meglio degli altri, loro migliori di tutto il resto. Oppure: due sapienze, vedo. Sapienze in sconcerto. Potrebbe essere Sofocle. Ma si sciolgono poi, le parole, nel sentimento di dedizione a un’esperienza cosmica che Walter Benjamin attribuiva all’uomo antico come elemento distintivo.
Traspare con nettezza il filo che lega questo lavoro al precedente Giuramenti, anche lì era questione di un enigma, non fosse per il bisogno dei due artefici di rimettersi in gioco ogni volta, di spostarsi un poco di lato. Restando comunque fedeli alla propria visione artistica, all’atteggiamento appartato che ne ha fatto una delle realtà rilevanti della nostra scena. Questa volta lo scarto è prodotto dalla figura di Pinocchio, intesa come la marionetta in sé piuttosto che come protagonista del romanzo di Collodi. La vediamo apparire sul fondo della scena muovendosi con lunghi passi lenti e traballanti, marionetta senza fili che con le braccia sembra nuotare nell’aria, sostenuta a fatica da un’enigmatica figura (sì, l’enigma è la chiave dello spettacolo) che poi assumerà anche il ruolo di Mangiafuoco. Ma questo dopo, dopo che già la platea svuotata si è riempita di altri suoni e immagini.
Lo spazio centrale è coperto da un manto bianco che reca impressa al centro una larga macchia di sangue, dove appoggia la bassa lettiga su cui giace il corpo di legno del burattino. Ed è come un lenzuolo funebre steso sul teatro. Dopo tutto di un requiem si tratta, Requiem per Pinocchio recita il sottotitolo. Attorno sta invece la strumentazione tecnica e sonora. Si inizia infatti con colpi di tamburi e altri rumori a introdurre l’ingresso degli interpreti. C’è un uomo alto che porta una lunga gonna e tiene in braccio una piccola creatura coperta da un velo, la depone accanto al corpo inerte come a vegliarlo. Ci sono due ragazze vestite di nero, due cantanti che fungeranno da coro con la loro silenziosa vocalità. Pochi gradini portano sul palco che però è quasi sempre immerso in una oscurità nebbiosa, è difficile distinguere cosa vi si posi. Spesso gli interpreti si servono di proiettori manovrati a mano per illuminarsi a vicenda. Sul palco Pinocchio percuote l’aria con una sferza o si arrampica su una scala a pioli che vien giù dal cielo, dove intanto sul fondo è comparso il grande disco di un pianeta lontano. Per un momento indossa il cappelluccio a cono caro all’iconografia del personaggio, contraddetta però dalla fisicità dell’interprete. Oppure si infila sotto la gonna dell’uomo, a creare l’immagine di un mitologico centauro che mitiga l’idea di violenza che gli si è appiccicata con l’immagine pacificante del rametto che gli è spuntato sul capo.
Ma a questo punto è chiara la biforcazione impressa allo spettacolo, l’enigma si è infilato in uno di quei labirinti di tempo di cui parlava Borges. Parole e gesti (è chiaro che sono espressioni limitanti) non combaciano. Le parole di Mariangela Gualtieri scorrono a fianco delle immagini, non le commentano come queste non interpretano le parole. Le dice lei stessa, seduta su un tavolo al fondo della sala, dando voce pastosa alla Fatina, l’unica a cui sia rimasta la parola e che dunque ci possa trasmettere la sua versione. Sono due parallele strade a senso unico, che vanno l’una accanto all’altra e trovano espressione, quasi un paradigma, nei corpi delle due straordinarie interpreti Chiara Bersani e Silvia Calderoni, corpi diversamente fuori dall’ordinario. Ed è vero che il corpo dinoccolato di Silvia Calderoni grida più forte delle parole scritte, non ha bisogno di un abbecedario, ma è quell’altro femminile che ci porta in un mondo magico popolato di grilli intelligentissimi e di lumache pazientissime, un mondo animale da cui si può ancora imparare. Forse è tutto qui l’enigma.
© Gianni Manzella