Ha casa a Palermo e non è raro vederlo nei locali della movida fra la Kalsa e il porto insieme alla scenografa Małgorzata Szczęśniak, sua abituale collaboratrice. È più raro invece vedere nel nostro paese gli spettacoli di Krzysztof Warlikowski, Leone d’oro della Biennale teatro veneziana da quest’anno passata sotto la direzione artistica di Stefano Ricci e Gianni Forte. Polacco di Stettino, Pomerania occidentale affacciata sul Baltico che è già una terra dai confini incerti, formatosi alla scuola di Strehler e di Peter Brook, il regista è uno dei nomi più affermati della scena internazionale anche musicale.
In attesa del debutto della nuova creazione, una programmatica Odissey attesa per l’autunno, a Venezia arriva con una ventina di attori del Nowy Teatr di Varsavia e un lavoro di tre anni fa, We are leaving, tratto da un testo dello scrittore israeliano Hanoch Levin che per Warlikowski è un autore di culto, come si sul dire. Una commedia con otto funerali, dice il sottotitolo. Lo spettatore è avvertito, giacché quegli otto funerali fungono da metronomo dell’azione scenica. Non sarà breve, c’è da scommetterci. Ed è però evidente anche il rispecchiamento in quell’altra commedia con due matrimoni e due funerali che era Krum, il primo lavoro di Levin messo in scena da Warlikowski che vedemmo proprio a Palermo, una quindicina d’anni fa, era la belle époque del Teatro Garibaldi. Di lì a poco lo spettacolo sarebbe andato ad Avignone a maggior gloria del regista.
Il grande spazio quadrato del Teatro alle tese, all’Arsenale, è racchiuso fra due pareti contro cui stanno da un lato un paio di divanetti vagamente domestici e dall’altro le panche di uno spazio pubblico, un nonluogo lo chiamerebbe Marc Augé, che può diventare di volta in volta una sala d’attesa o una tavola calda, su cui si aprono le porte dei bagni, ingentilite dai neon rosa e azzurro che dicono Ladies e Gents. Sul fondo si allineano una serie di porte vetrate, al di sopra delle quali si allunga uno schermo dove si proiettano foto o frammenti video.
Sui divanetti stanno stravaccate tre donne, la madre e due figlie si capisce subito, una bionda in minigonna, l’altra bruna e vestita austeramente casual, eccola sventolare una bandiera israeliana davanti a qualche evento sportivo. Siamo nel 1998, dice sullo schermo la sigla dell’Eurovisione. Il padre compare al centro della scena quando le luci lo inquadrano. Sono pesante, si lamenta. Papà, fatti coraggio, lo esortano le figlie. Ma si sospetta in fretta che sarà suo il primo funerale. E dunque sarà forse sogno o allucinazione la giovane donna che gli sta accanto, a cui lui palpa con veemenza il seno per giungere al primo dei tanti orgasmi che si produrranno durante lo spettacolo. Per lo più infelici, più sofferti che goduti. Le ragazze si cambiano veloci d’abito senza neppure alzarsi dal divano, indossano un tubino nero buono per tutte le occasioni, anche quelle luttuose.
In scena si affollano cinque nuclei familiari e qualche singolo personaggio. Tutti in rapporto fra loro, forse sono vicini di casa, o abitanti dello stesso quartiere. Le loro storie si intrecciano l’una con l’altra, si incastrano nel gioco degli slittamenti temporali. C’è l’anziana visitata dal marito morto quand’era ancora giovane che torna come un dybbuk per invitarla a un gelato insieme. La coppia che non sa dove sistemare l’anziana madre. La donna perennemente incinta. La prostituta altissima che in quel contesto stenta a vendere quel che deve. E poi figli nipoti amanti riluttanti e scollamenti fra parole e gesti e alla fine le vedove che hanno formato un gruppo per il bridge. E c’è anche un servitore, che si aggira muto per la scena dispensando vodka e altro, testimone di quelle vite al tramonto come in certe commedie di Čechov. Una specie di Rocky Horror del film di Jim Sharman, un po’ più pesante, talora un po’ più svestito. Dunque un Čechov derisorio, se vogliamo mantenere un riferimento non del tutto inappropriato – resta per tutti il rimpianto di una vita che non è stata vissuta, zio Vanja insegna.
Quando muore uno di loro, si illumina lo spazio al di là della parete vetrata per un funerale anch’esso un po’ derisorio. Davanti alla bara qualcuno ha bevuto troppo e non si regge in piedi, qualcuno litiga con gli altri, nessuno sembra in grado di tenere il discorso funebre. Ma intanto la lapide dei cari estinti scandisce anche una dimensione temporale giacché da quell’iniziale 1998 (che poi è l’anno che precede la morte reale di Levin) si passa al 2008, al 2012, al 2016… insomma sono più di vent’anni di storia del paese che scorrono, anche se sembra che non cambi mai niente, anche se quel microcosmo sembra del tutto impermeabile a qualsiasi avvenimento esterno. Ma di quale paese si parla?
L’unica aspirazione comune è quella di partire, di andarsene. Non importa se Londra o la Svizzera o addirittura l’America. Quelli che fanno le valigie, recita più o meno il titolo originario, Suitcase packers, se si dà fede alla versione inglese nello sfrangiarsi delle lingue dall’ebraico al polacco. E infatti è un moltiplicarsi di zaini e di trolley anche quando la meta è soltanto un sanatorio o la casa di riposo dove cacciare la nonna che però non ne vuole sapere e infatti sopravvive a tutti e appena può scappare dalla famiglia si libera anche dell’abito tristemente dimesso e tira fuori colori vivacissimi. Stanno partendo ma sono sempre lì. E chi è partito ritorna nell’attesa di una fidanzata americana che non arriva mai.
Già, di quale paese si parla? Israele certo, si va in sinagoga e a fare surf sul lago Tiberiade. Ma dietro la facciata non si fatica a intravedere la Polonia di Warlikowski (del resto Levin era figlio di immigrati polacchi). Tutta quella vodka, tutto quel fumare così poco moderno e sano, da paese arretrato, quella stessa pulsione inesausta all’emigrazione riportano lì. Insomma, la domanda non è oziosa. We are leaving si sfrangia in immagini non tutte perfettamente combacianti. Fantasia gay su temi nazionali, per citare quell’Angels in America che Warlikowski conosce assai bene per averlo messo in scena. Compendio di storia sessuale del paese, fra rapporti consumati nei bagni e musica disco sparata nei club a luce rossa. Lamento funebre per il microcosmo di una società viscosa, altro che liquida, laddove Krum suonava come un kaddish in morte della madre del protagonista. Imprendibile persino per la vlogger venuta d’oltre oceano e in continua connessione con i follower per condividere incontri e immagini del viaggio, in realtà riprende solo se stessa con la videocamerina innestata in cima all’asta.
L’ultima parola se la prende la ex-prostituta che finalmente ha coronato il sogno del grand tour in pullman. Roma e Firenze e Venezia, Londra e naturalmente la Svizzera, con tutte quelle chiese e i laghi e il museo egizio e il cabaret, chissà se era a Londra o a Parigi. Nel ricordo tutto si confonde. È stato fantastico. Sembra il ritratto dei turisti che sono tornati a invadere Venezia.
© Gianni Manzella