Un vecchio e un bambino si presero per mano e andarono insieme incontro agli applausi, al termine del conturbante Bros di Romeo Castellucci. L’inizio e la fine, l’alfa e l’omega della creazione si potrebbe dire, entro cui è racchiuso lo spettacolo, evento conclusivo del festival internazionale diretto da Paola Tripoli al LAC, acronimo che sta per Lugano Arte e Cultura. Una sorta di Beaubourg ticinese affacciato sul lago, bello e freddo abbastanza da creare un sano contrasto con il calore del teatro.
Al centro della nuova creazione dell’artefice della Societas ci sono però la ventina e più di “uomini dalla strada” reclutati da Castellucci, a cui poco prima dell’inizio dello spettacolo è stata consegnata una divisa da poliziotto insieme a un codice di comportamento e un auricolare. Non hanno mai provato, solo quando sono lì sul grande palcoscenico condiviso con gli spettatori vengono istruiti in tempo reale sulle azioni da compiere, ognuno indipendentemente dagli altri. Ma non si tratta nemmeno di improvvisazione perché qui ogni gesto è preordinato. Si tratta unicamente per gli interpreti di adempiere ai compiti che vengono impartiti via radio. Un esperimento antropologico, si è detto. Ma forse è spiegazione troppo semplice, che non dà conto del contenuto emozionale che il teatro è capace di sviluppare. E poi il teatro non è mai antropologia, non è dimostrazione di una tesi. Questo teatro.
C’è piuttosto in ballo una riflessione sui meccanismi del potere che investono tanto il linguaggio, vedi il vocabolario sventagliato nel recente ossessivo Terzo Reich di Castellucci, una sequenza di parole proiettate in velocissima frequenza, quanto la logica dell’ubbidienza a un ordine quando diventa impulso collettivo, riflesso condizionato di massa. Qui la collettività è distorta nella contrazione commerciale del titolo che sta per “brothers”, come se insomma fosse una ditta quella confraternita di uomini accomunati dal portare un’unica divisa, illusoriamente partecipi di una minima dose di un potere che sta altrove e però si diffonde come un contagio. Le divise nere richiamano quelle che tutti hanno imparato a conoscere dal cinema americano, distintivo metallico sul petto, revolver alla cintura, berretto con la visiera, l’immancabile manganello in mano. Ma più che a Miami vice o a New York Police Department viene da pensare al cinema di Buster Keaton o Laurel e Hardy, qualcosa che si avvicina alla comica slapstick, dove il disordine che nasce dai corpi scompagina il tessuto sociale.
All’inizio però c’è un rumore sordo, ossessivo. La traccia sonora impressa da Scott Gibbons picchia duro. Nell’oscurità nebbiosa che avvolge la scena si intravede un congegno con una testa rotante, una sorta di cannone cilindrico che esplora l’ambiente intorno, equivalente tecnologicamente avanzato della “macchina della morte” di qualche lontano lavoro di Tadeusz Kantor. E dall’oscurità emerge una figura tutta vestita di bianco, un vecchio dalla gran barba con una tunica che gli arriva ai piedi. In mano tiene il ramo di un albero che gli fa da bastone e gli conferisce un’aria da profeta biblico. Sarà che nel mezzo delle parole incomprensibili che pronuncia pare di cogliere qualche nome conosciuto. Rachele, Babilonia… È infatti un brano di Geremia, però in lingua romena, la lingua dell’interprete Valer Dellakeza (più di sessant’anni al teatro nazionale di Craiova, ha recitato Čechov e Goldoni ma anche con Robert Wilson). Lui urla la sua lamentazione, ride e inveisce, si rivolge con gli occhi al cielo prima di spogliarsi della tunica e avviarsi verso il fondo.
Sono le sole parole che ascolteremo nel corso dello spettacolo. Altre parole le leggeremo sui teli neri con cui i poliziotti coprono il corpo del vecchio, motti tradotti in lingua latina, cose come: non puoi dire al passato cosa fare. Ma soprattutto ci sono le parole che non ascoltiamo ma di cui vediamo gli effetti, la trascrizione scenica, che è un altro modo di ascoltare ma richiede un di più di attenzione. Da quel momento in poi è la schiera dei poliziotti, i “fratelli” del titolo, a prendere possesso della scena. Si mettono in posa per una foto di gruppo. Si schierano in fila dai lati, sventolando una bandiera nera. Saltano e strisciano per terra. Lavano assurdamente i propri fucili in un secchio. Trascinano in scena grandi pannelli con le foto di Samuel Beckett o di una scimmia. Si immobilizzano in un tableau vivant, replicando una pittorica lezione di anatomia intorno al corpo denudato di uno di loro, cosparso in precedenza di una cadaverica sostanza bianca. Caricano ossessivamente le armi, da cui ogni tanto parte qualche sparo. Si inginocchiano davanti a idolo benedicente e alla fine c’è anche una sorta di battesimo collettivo, sotto gli spruzzi che escono dagli ugelli di un circuito idraulico, valvole e tubicini.
E tuttavia questa entropia che crea il proprio passato, questo programmato disordine non è giocoso. Vi emergono vere e proprie scene di tortura, come quel waterboarding che consiste nel bloccare il malcapitato su un tavolaccio con un panno sulla faccia e versarvi a forza litri di acqua, in maniera da provocare soffocamento. Ai colpi dei manganelli che hanno ripreso a picchiare si sovrappone un Lied di Schubert, Nacht und Träume. Ma il sogno notturno è piuttosto un incubo. E non consola l’immagine finale del bambino che compare da dietro il sipario calato, anche lui con una tunica bianca. De pullo et ovo, recita ambiguo un nuovo motto – del pulcino e dell’uovo. Sul petto ha già appuntato il distintivo dei “fratelli”.
© Gianni Manzella