Christoph Marthaler o la dissoluzione del linguaggio. Fin dal suo apparire sulla scena internazionale, sulla metà degli anni novanta del secolo scorso, il geniale regista zurighese ha preso a bersaglio il linguaggio degli “specialisti”, trincerati nel bunker della propria casta o racchiusi a forza in uno spazio comune da cui non possono o non vogliono uscire. Erano in Stunde Null le parole vuote dei discorsi commemorativi della nascita della nuova Germania fatti a pezzi e ricomposti in bocca a un campione di classe dirigente. O le chiacchiere di organizzazione finanziaria, di turni di lavoro, dei metodi usati per stare bene di Die Spezialisten, appunto, uomini ormai anziani vestiti in abiti formali tutti dotati di qualche speciale conoscenza professionale che però non sembrava servirgli più a nulla. O ancora il linguaggio dei fautori della “new economy” globalizzata, per il gruppo di burocrati e maneggioni che in Groundings accompagnavano il naufragio economico della Swissair, la compagnia di bandiera elvetica. E indimenticabile era stato, una decina d’anni fa, a Parigi, il delirante Meine faire Dame in cui Marthaler faceva a pezzi il musical di Broadway come il film di George Cukor con Audrey Hepburn, con un allampanato professor Higgins perso nel suo tormentone linguistico, The rain in Spain says mainly in the plain, e una piccola comunità in cerca di una metamorfica individualità al di là dell’insensatezza delle parole che è costretta a pronunciare, fra gag reiterate e coretti.
Proprio da quel “laboratorio di lingue” sembra uscire questo nuovo inqualificabile Das Weinen (Das Wähnen) che Marthaler ha presentato all’Arena del sole bolognese. Il pianto (il pensiero), vorrebbe dire il titolo. Ma così la traduzione non vuol dire niente, si capisce che tutto sta in quel gioco non proprio innocente di assonanze, dove basta il cambio di una lettera per aprire abissi di senso – credo piacerebbe al nostro Bergonzoni. (La traduzione dei sovratitoli porta la firma di Sonia Antinori e non le si può proprio rimproverare nulla, una volta che si è preso atto dell’impossibilità di riprodurre il gioco sonoro della lingua originale). Questa volta Marthaler si è rivolto in larga parte alle parole tratte da un libro ricevuto in dono più di trent’anni fa da Dieter Roth, eclettico artista cosmopolita scomparso nel 1998.
C’è di mezzo anche qui uno di quegli spazi reclusori in cui Marthaler richiude un piccolo gruppo sociale. Una farmacia all’apparenza, alte scaffalature piene di scatole, suddivise in base alla parte del corpo da trattare. Stomaco cuore occhio intestino e così via. Un lungo banco di vendita a cui però non si presenterà nessun acquirente, nella durata dello spettacolo. Ecco invece entrare un’anziana farmacista in camice bianco. Cava un disco di vinile dalla custodia e lo mette su piatto, si appoggia al banco ad ascoltare rapita la musica. Altre quattro la seguono in fila e tutte insieme intonano subito un coretto.
Il primo dialogo sembra effettivamente in rapporto con il luogo: parlano di micosi delle unghie, delle sue cause, di come trattarla. Ma è un attimo per scivolare in una sistematica distruzione del senso, fra dialoghetti di surreale insensatezza e tirate che si avvitano su di sé. E quando la più anziana comincia la lettura del bugiardino tirato fuori da una delle confezioni sappiamo già cosa ci aspetta ma l’effetto è distruttivo, in quell’interminabile elencazione di effetti collaterali da combattere con gli effetti collaterali di altri farmaci. Stop, gridano. Il sipario è strappato, la scena è diventata irrecitabile. E intanto sulla scena si moltiplicano le gag delle cinque scatenate. Bravissime. Una per tutte, Olivia Grigolli, una delle protagoniste della scena di lingua tedesca, già altre volte partecipe delle creazioni di Marthaler. E c’è anche un ometto vestito di grigio con il cappello sempre calcato in testa che viene portato dentro e fuori dalle interpreti rigido come uno stecco. Ma è soprattutto la drammaturgia musicale a reggere il ritmo, dove vien fuori la formazione del regista. Spunta in alto su un monitor un pianista in azione e tutte si immobilizzano lì sotto cantando. Ecco Crying in the rain di Carole King resa celebre dagli Everly Brothers nei primi anni sessanta, sempre del secolo scorso si intende. O una versione puntillista del Lacrimosa dal Requiem di Mozart che diventa un tormentone che non riesce a uscirti più dalla mente.
Lo spettacolo è finito da un pezzo, dicono a un certo punto. E forse per questo possono allora permettersi un gesto di ribellione. Con metodica applicazione cominciano a buttare giù dagli scaffali quelle centinaia di scatolette, fino a che non ne è rimasta nemmeno una. Poi in coro intonano un giuramento del farmacista che dovrebbe ricalcare quello prestato dai medici prima di iniziare la professione ma a quel punto sai già che è bugiardina anche quella. Si finisce con la salita al calvario di un povero cristo che trascina faticosamente la pesante insegna della farmacia, con il bastone di Asclepio che va e viene, fino a crollare sotto il peso di quella croce verde lampeggiante. Loro, le farmaciste liberate, si stanno facendo una birretta.
Divertentissimo come tutti gli spettacoli di Marthaler, per chi sa stare al gioco, Das Weinen (Das Wähnen) è uno spettacolo sovversivo, giacché mette in questione in maniera radicale ciò che già “era in principio”, la parola. E riguarda anche il teatro naturalmente, quando si diventa dizionario delle idee correnti. Gli esempi anche recenti non mancano. Dunque non può che dividere. Qualcuno non apprezza. È un bene che succeda.
© gianni manzella