Constanza Macras o la memoria del futuro. Fin dal suo primo emergere sulla scena europea, ed è ormai quasi un ventennio, l’artista porteña con base a Berlino ha posto al centro del suo lavoro il tema della memoria, individuale e collettiva, in rapporto con la più artificiosa delle invenzioni umane, il tempo. Era il severo bisogno etico di “tornare al presente” suggerito dal titolo del suo primo successo, Back to the present, che subito ce la fece amare ad Avignone. La memoria è fragile, l’immondizia resta per sempre – diceva con qualche ironia il motto della sua compagnia Dorky Park. E poteva valere, a piacere, tanto per la fine di una vicenda sentimentale quanto per i rifiuti lasciati nello spazio dalla navicella orbitante Mir.
Non fa eccezione questo programmatico The future che già nel titolo sembra fare da specchio al precedente The past, che vedemmo a Berlino qualche anno fa. Lì teneva la scena l’ars memoriae, le tecniche della memoria studiate già durante l’antichità classica e riportate in vita in epoca rinascimentale, fra Giordano Bruno e l’arduo “teatro della memoria” di Giulio Camillo; ma per dar voce al dolore non sanato di quattro anziane donne sopravvissute all’olocausto di Dresda, rasa al suolo dai bombardieri angloamericani nel tardo inverno del 1945. Qui la guerra è convocata dentro un involucro fantascientifico che tiene a distanza l’aspetto emotivo ma è reso più inquietante dai balbettanti richiami a quella “igiene del mondo” che nasce come manifesto futurista e però suona più che mai d’attualità nello stato di attiva belligeranza in cui siamo stati precipitati.
Ci aveva conquistato, la giovane Constanza Macras, anche per quella sorta di giocosità con cui metteva in scena uno spaesamento che non è evidentemente soltanto suo. Quel piacere di condividere lo spazio del teatro che abbiamo ritrovato in tutte le sue creazioni successive. E ognuna di queste è stata un viaggio in cui lasciarsi coinvolgere, cioè per gli spettatori un incontro con l’immagine dell’altro – e agli stereotipi non si può girare intorno, bisogna per forza andarci a cozzare. Erano l’India di Bollywood nel travolgente Big in Bombay o i campi Rom nei pressi di Praga o Budapest visitati per raccogliere nuovi compagni in Open for everything; il popolare quartiere di immigrati a Berlino in cui era ambientato Scratch Neukölln o il perturbante inoltrarsi nella tropicale foresta di No Wonder, in cui l’artefice aveva scelto di mettersi in gioco impudicamente in prima persona, o ancora l’immaginario paradiso artificiale di Brickland dove una comunità agiata replicava i suoi riti.
Il teatro di Constanza Macras agisce per divertimento e sorpresa. Grazie alla voracità con cui sembra addentare ogni immagine dell’immaginario globalizzato, senza tanta attenzioni alle convenzioni del décor, se ne è parlato altre volte. Ma divertimento e sorpresa sono messi al servizio di uno stile, di un pensiero. Davanti a cui non si può essere tiepidi, come avviene del resto con altri artisti, da Platel a Marthaler o Angélica Liddell. Prendere o lasciare, c’è un sottile filo rosso (si sarebbe detto una volta) che separa “da noi” la tremenda noia che spandono quasi tutti gli spettacoli cosiddetti seri che vogliono intrattenerci a lungo su temi sociali e democratici, su cui non si può non convenire a prescindere, mentre assistervi somiglia quasi sempre a una punizione. E allora conviene dirlo subito che The future è uno spettacolo bellissimo. E pazienza se qualcuno parlava di un’“esperienza orribile” al termine dello spettacolo presentato sul grande palcoscenico del teatro Strehler, ad apertura del festival Presente indicativo, un mese di “paesaggi teatrali” dedicati a Giorgio Strehler, nell’anno in cui il Piccolo teatro compie settantacinque anni di vita. Almeno a teatro avere opinioni diverse è ancora consentito, e teniamoci stretta questa libertà di dissenso che non pare avere più diritto di esistenza attorno a noi.
È che la dance bien faite è proprio finita, inutile attendersi le ballerine che sgambettano. E meno male. Nel teatro di Constanza Macras, la danza non è mai un esercizio di stile fine a se stesso. È una sorta di forza gravitazionale, capace di assorbire la street dance dei ragazzini di Scratch Neukölln, tanto quanto le danze gitane di Open for everything. Perché possa svilupparsi, qualcosa deve caricarsi fino a rischiare di esplodere. La danza è ciò che resta dopo che tutto si è consumato. Quando non c’è più nulla da comunicare e bisogna invece esprimere. Ecco invece, subito all’inizio di The future, una rete metallica che una ragazza cerca inutilmente di superare, e già dà da pensare. Mentre un poco alla volta gli attori entrano in scena, anche scendendo dai due montarozzi che stanno sul fondo coperti da una plastica azzurra. Sono una decina, vestono costumi arlecchineschi, molto colorati, oppure aderenti tute bianche e tunichette leggere che si aprono in arditi spacchi verticali.
Quel che trasmette The future a un primo livello di lettura è un desiderio. O forse più propriamente si tratta di quel sentimento incerto fra desiderio e nostalgia che i francesi chiamano désir. Un desiderio di musical, si potrebbe dire, retrodatato a cavallo degli anni settanta o ottanta del secolo scorso, fra il post-punk britannico dei Wire e la no-wave di Lydia Lunch, cui qualche cosa è dovuto anche in termini iconografici (quando ancora il rock aspirava a essere trasgressivo, oggi appare invece singolarmente allineato al potere). Immaginate Grease precipitato all’interno del coevo Rocky Horror picture show. Un desiderio di musical che esplode nel funk nostalgico di Keep moving e innesca un trascinante momento corale. Che poi però si disfa lentamente. Viene in mente l’“uomo difficile” di Hofmannsthal, in lui si era creata una crepa che allontanava l’azione dalle parole capaci di raccontarla. Nel mezzo di un’altra guerra. Un secolo dopo è il gesto che sembra allontanarsi dal suono, sorpassato da un atto estremo non solo indicibile ma capace, per di più, di essere più rivelatore di ogni tentativo di espressione. Poi la musica riprende ma è tutta un’altra cosa, un rock progressivo su cui ognuno ormai fa per sé.
Sul grande schermo curvo che occupa per intero il fondo del palco appare intanto l’immagine del vulcano Tunupa, in Bolivia, montagna sacra per le popolazioni aymara che qui hanno vissuto per migliaia di anni e si rispecchia nella superficie bianca del Salar de Uyuni, la più vasta distesa salata del pianeta ma anche il più grande giacimento di litio, materia base come si sa per la produzione delle batterie elettriche. Insomma gratta la suadente immagine turistica e torna fuori sempre il capitalismo. Così si fa lo slalom fra L’invenzione di Morel, il breve romanzo fantastico di Adolfo Bioy Casares, e il capolavoro di Andrej Tarkovskij Solaris che portano nello spettacolo un brivido metafisico. Si entra in un club popolato da personaggi chiacchieroni che hanno nome Discronia Utopia Nostalgia… Sul ritmo di samba della Garota de Ipanema si ricordano le esperienze traumatiche del passato (l’incendio della casa, la fine di un amore…) per chiedersi poi: è tutto qui? Il tempo non è più quello di una volta, concludono. Già, ma cos’è il tempo?
A rispondere è la fisica del Novecento trasformata in oggetto di conversazione all’interno di un improvvisato salottino, fra un divano che consente anche qualche coreografica scivolata e una porta che moltiplica le entrate da comica slapstick. La meccanica quantistica che si affianca alla relatività degli orologi di Einstein, cui aveva già reso omaggio Robert Wilson “on the beach”; il principio di indeterminazione di Heisenberg accanto alla sbalestrante teoria dell’interferenza. E c’è anche, confezionata come un pacco dono, la scatola con dentro il gatto di Erwin Schrödinger che è insieme vivo e morto (sveglio e addormentato, traduce in maniera più politicamente corretta Carlo Rovelli nel bellissimo Helgoland). A più riprese fa la sua comparsa sul palco una teca vetrata abitata da un alberello in lotta per lo spazio con enigmatiche presenze umane.
Si finisce invece con una battaglia di tutti contro tutti, guerrieri di ogni epoca, dai vichinghi ai legionari romani, che si battono con spade clave martelli picche coltelli, c’è anche un dio Ermes disceso dall’Olimpo, finché appare quello in abito grigio con la pistola, appena uscito dal suo ufficio nella City, e si sa che quando l’uomo con la pistola incontra l’uomo con la spada… L’effetto è un po’ fumettistico e invece è il momento più ideologico, con l’evocazione di un “universal soldier” (quello di Donovan, anno 1965, non la serie cinematografica) che combatte da migliaia di anni e pensa di combattere per la democrazia e che così metteremo fine alla guerra. Così continuano a raccontarci, ogni sera.
Suona un po’ come lo sperimentalissimo Revolution 9 nel White album dei Beatles, lo spegnersi dell’azione in un finale gioioso, tutti in mutande alla Paradise now del Living di Beck e Malina che sfidava la censura dell’epoca. Allora era oltraggio al pudore; qui forse allo sguardo dello spettatore convenzionale.
© Gianni Manzella