Alla fine si torna sempre lì. A quel crogiolo di storie da cui nascono, qualche millennio fa, i due miti fondanti della nostra civiltà. Quella che chiamiamo occidentale ma è un trucco contabile, un miraggio geografico, giacché nessun Occidente può esistere a prescindere da un Oriente più meno inventato. E lì, in quel fondo oscuro illuminato dall’oscurità del mito, sta la guerra scatenata dall’alleanza occidentale contro l’imprendibile Wilusa, la potente città che gli achei chiamavano Ilios. Matrice di tutti i conflitti futuri, perfino culturali e antropologici, la razionalità di apollinea contro l’ebbrezza dionisiaca. Nella scia di quella lunga guerra, che qualcuno diceva fosse stata combattuta per un fantasma, stanno le origini per nulla pacifiche della democrazia in Europa, raccontate dall’Orestea di Eschilo. E da lì nasce il doloroso sentimento del ritorno a casa che ci parla nell’Odissea, oggi può assumere il volto di migranti e rifugiati.
Dunque siamo lì, in The lingering now (O agora que demora) / Our Odyssey II, titolo esplicativo della seconda parte di un dittico dedicato al poema omerico da Christiane Jatahy. Brasiliana cinquantenne, da qualche tempo fra i nomi più contesi dei festival europei, con una cifra molto personale nella commistione di cinema e teatro; ha affrontato a modo suo Strindberg e Čechov, senza perdere di vista l’attuale situazione del suo paese. Ora anche Leonessa d’oro della Biennale veneziana, così la si è appellata durante la cerimonia di premiazione.
Rosso è il colore che incornicia questa edizione del festival, la seconda sotto la direzione di Stefano Ricci e Gianni Forte. O meglio Rot, come sta scolpito sulla copertina del catalogo. Colore bruciante e passionale, teso fra emergenza e pericolo. Che rosso è quello immaginato dai due artisti? Non è il Rouge mutevole, imprevedibile di Krzysztof Kieslowski, opera ultima del grande cineasta polacco, per ricordare la più bella interpretazione di Jean-Louis Trintignant da pochissimo scomparso. È un rosso un po’ sfocato, diciamo così, sfogliando appunto il catalogo dove la grafica ha evidentemente un ruolo preminente e la parola è usata soprattutto per il suo effetto visivo. Contorna immagini frammentarie di un manuale di anatomia, impaginate con un gusto un po’ costruttivista, alla maniera delle avanguardie russe degli anni venti (del secolo scorso però). Obbliga un po’ a non fermarsi al primo sguardo, come questo festival.
The lingering now non è un’opera teatrale, lo dice l’artefice. Lo scrive nelle note di regia, per essere precisi. Forse è un film o forse no. Forse è un’opera teatrale che inizia come un film, ma il suo cuore resta cinematografico. Quel che è certo che al posto di un palco ci troviamo di fronte a un grande schermo cinematografico quando entriamo nella sala del teatro alle Tese, all’Arsenale, e sullo schermo già scorrono le immagini di un film. Ci troviamo di fronte a una lunga tavolata dove una comunità all’apparenza mediorientale celebra forse un rito familiare, fra bibite rigorosamente analcoliche e spiedini che cuociono sulla griglia. Voci confuse che creano un animato brusio di fondo. Senza averlo percepito immediatamente, senza soluzione di continuità ci troviamo sbalzati in altre dimensioni geografiche, giacché il film è stato girato in cinque paesi diversi, dalla Palestina al Sudafrica. Fino a fermarci sul volto di una bambina, inchiodati al suo sguardo severo.
Poi, quando tutti si sono seduti ai loro posti, il film prende una strada narrativa. Un uomo prova a prendere i panni di Odisseo per raccontare la propria storia, ma è sempre quest’ultima a prendere il sopravvento. A tavola, mentre già si fa notte, raccontano la storia del Ciclope sconfitto dal vino che non conosceva o quella di Circe che trasforma i compagni in animali selvatici o l’incontro con le sirene che non bisogna ascoltare. E intanto però, dalla sala che ha ormai chiarito la funzione corale del pubblico, cominciano ad alzarsi delle voci, dei suoni. Riconosciamo alcuni degli interpreti del film. Qualcuno suona un oud o il violino, una inizia un canto. E il canto diventa un ballo che vorrebbe essere collettivo. Insieme riproducono con due dita il rumore della pioggia, amplificato da piccoli microfoni che tengono in mano. Le loro tante odissee si dilatano nel dialogo fra la sala e lo schermo.
Ci sono molte cose, molte storie all’interno di The lingering now. Forse troppe. Forse perché non è vero che tutte le storie sono uguali (ci sono molti forse in questa cronaca, non è un male). C’è quella della ragazza che ci siede accanto, che è nata in Belgio da una famiglia di immigrati siciliani e quando per la prima volta torna nell’isola, lei che ormai neppure parla più la lingua dei nonni, si trova di fronte a un misterioso senso di appartenenza. E c’è quella di Yara, la ragazza siriana che è emigrata in Libano per studiare teatro e quando torna in patria per rivedere il padre viene arrestata e tenuta in carcere per molti mesi, accusata addirittura di terrorismo.
Siamo evidentemente dalle parti di un teatro della realtà, come si ama definirlo. Che sconta l’ambiguità del gioco fra realtà e finzione – qui l’ambiguità si svela nel dialogo fra gli interpreti in sala e il loro doppio che compare sullo schermo, ovviamente fissato in un copione. Vale piuttosto la lezione di Kantor, la realtà a teatro può esistere solo in rapporto con la finzione. Ma inscatolare dentro una definizione è sempre sbagliato, non aiuta a capire. Il rischio semmai è di lambire un teatro del consenso, che affronta cioè temi politici su cui non si può che essere d’accordo a prescindere e dunque nulla muta. Forse la sintesi più appropriata dello spettacolo è quella che compare nel titolo. Ed è una immagine molto bella. Il presente che forse ritarda ma alla fine deborda. Per dire qualcosa che non si può fermare, che esce naturalmente dai confini.
L’ultima storia è quella dell’artefice, Christiane Jatahy. È stata sempre in scena, fino a lì, da un lato. Ora racconta che il nonno era fuggito dal Portogallo per sottrarsi alla dittatura di Salazar, un’altra storia di esilio. Ed è scomparso in un disastro aereo, una leggenda familiare vuole che fosse l’unico sopravvissuto e avesse trascorso il resto dei suoi giorni nella foresta dell’Amazzonia, in mezzo a una tribù di nativi. Ma non voglio essere una Penelope, dice lei. Così invece ha preso l’aereo per andare là, in mezzo a quegli uomini che lottano per conservare la propria terra, come racconta il cacique del villaggio. Un altro ritorno a casa. La vicenda personale deborda in quella collettiva.
© Gianni Manzella