La vita è una donna che danza, scriveva in un altro secolo il poeta francese Paul Valéry. E forse aveva in mente una ballerina spagnola che molti aveva stregato in quei tempi, le immagini che ci restano non le rendono giustizia. Qualcosa del genere potrebbe affermare anche Emma Dante, nei suoi lavori questa immagine ricorre con la frequenza di una metafora ossessiva. Danza di morti che celebra la vita, dalle Sorelle Macaluso al recente Pupo di zucchero: ecco l’anziana coppia che si libera degli abiti consumati dal tempo, cioè dei loro anni, e tornati ragazzi vestiti di lamé si lanciano in un ballo scatenato. E qui riemerge quasi a mettere insieme i frammenti sparsi lungo il percorso, in questo Tango delle capinere presentato dal teatro Biondo che lo produce. Non per caso forse ha chiamato a interpretare lo spettacolo Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, due attori storici della sua compagnia, erano già in quel primo rivelatore mPalermu di vent’anni fa. Al centro c’è sempre la memoria, che costituisce “il tema” dell’esperienza creativa dell’artista palermitana, o meglio c’è la scena intesa come scatola della memoria. Da cui non si esce, perché la memoria uno se la porta sempre dietro.
Nell’antro della scena ancora al buio si scorgono due bauli. Distanti. Poi dal buio emerge una donna anziana. Dal baule su cui era seduta cava una presa elettrica e quando la connette si illumina un firmamento di lucine. Da dietro l’altro baule, all’angolo opposto del palco, è spuntato un uomo, anche lui anziano. Dritto e rigido procede lentamente incontro a lei che si muove ricurva per porgergli la giacca. Arrivati al centro del palco, sotto le luminarie da balera che lei ha acceso, si stringono in un immobile passo di ballo che presto si tramuta in un tardivo abbraccio erotico, prima che il sonno abbia fragoroso sopravvento. Con faticosa lentezza evocano passati momenti festosi, l’attesa dell’anno nuovo salutato dall’accensione di un petardo, il lancio per aria di una manciata di coriandoli, l’allungarsi a scatto di uno di quei fischietti di carta arrotolata che si chiamano anche lingua di Melelik, pare in spregio dell’antico sovrano di Etiopia.
La ricordiamo bene, questa sequenza di struggente comicità, era l’inizio di Ballarini. Una decina d’anni fa. Anche le canzoni che intanto hanno cominciato a dare la parola a quella clownerie di gesti sono le stesse, pare di ricordare. E se domani io non potessi rivedere te, canta Mina. Mettiamo il caso che ti sentissi stanco di me. E lontano lontano nel tempo qualche cosa negli occhi di un altro ti farà ripensare ai miei occhi, le risponde qualcuno. Ma bisogna subito togliere di mezzo il sospetto che sia un remake questo Tango delle capinere, forse neppure un re-enactment, come adesso va di moda dire. Piuttosto di una parafrasi si tratta, una riformulazione che gonfia il registro linguistico di quel precedente.
Le parole delle canzoni disegnano un’epoca, suppergiù la prima metà degli anni sessanta del secolo scorso. Banali quanto si vuole, ma capaci di dare letteralmente voce a un sentimento. Il Grande Tema di quegli anni giovanili: la fine di un amore. Se mi vuoi lasciare dimmi almeno perché. Ma c’è da dubitare che questo interessi poi tanto a Emma Dante. Interessa piuttosto il ritmo sincopato impresso dai balli, il twist e l’hully gully, il valzer lento e il tango appunto. Perché intanto ballando ballando i due si vanno spogliando un poco alla volta degli abiti e della maschera di senile rigidezza. Spuntano vestiti leggeri e vestaglie, costumi da bagno e persino i colorati lamé di una gara di ballo. Interessa insomma il fluire a sbalzi delle immagini che si presentano alla memoria, che non ubbidisce a una cronologia. Una scatola infiocchettata e un paio di scarpette rosse, ché per ballare devono essere comode.
Anche il ricordo delle canzoni si confonde, fra ba ba baciami piccina e il bandolero stanco che a mezzanotte va, evergreen della canzone melodica. Si slitta indietro e avanti nel tempo. E tu scrivimi scrivimi se ti torna la voglia e raccontami quello che fai. E infatti, tra due giorni è Natale e lui compare mascherato per l’occasione. È tutta una vita che preme per farsi di nuovo presente. L’incontro da ragazzi su una spiaggia. Il dono di un carillon. L’abito da sposa e la nascita di un bambino da coccolare. Una vita come quella di tutti, viene da dire. Litigi e abbracci. La lotta per chi deve tenere il telecomando, dovendo scegliere fra il gol di Tardelli e il mostro di Firenze. Proprio per questa normalità tanto più commovente, perché ognuno può proiettarvi volti gesti parole del proprio vissuto. Sono il nostro passato quei due. E poi quella tosse che è presagio, esorcizzato da una gag immutabile e da manciate di pillole. Lui a un certo punto non è più al suo fianco a farle da spalla.
Per tutto il tempo il suono del carillon ci aveva ricordato che la sua carica meccanica ha un termine fatale. Lei allora stacca la spina e così si spegne quel cielo stellato. Il coperchio delle due casse si è richiuso sul ricordo delle vite che conteneva. Sul palco ne restano i detriti. Qualche palloncino colorato. Un velo da sposa e pochi stracci colorati. Una bottiglia vuota. Un giorno Gondrand passerà, cantava un altro poeta. Col camion giallo porterà via tutto quanto. Al suono del bandoneon di Astor Piazzolla, la vita è una donna che danza.
© Gianni Manzella