È un tributo all’intrecciarsi di geografie e culture un tempo lontane questo fascinoso Ukiyo-e di Sidi Larbi Cherkaoui che ha aperto RomaEuropa festival e sarà a fine settembre a Torinodanza. Come ci si può aspettare dall’eclettico coreografo di Anversa, madre fiamminga e padre marocchino, cresciuto in Belgio sulle orme di Alain Platel e Anne Theresa De Keersmaeker e ora di casa a Ginevra dove da poco ha assunto la direzione del Ballet du Grand Théâtre della città svizzera. Nonché da vent’anni presente con non casuale frequenza nel programma della manifestazione romana diretta da Fabrizio Grifasi che ha intitolato questa edizione del festival alle Geografie del nostro tempo.
Le geografie di Sidi Larbi hanno spesso guardato all’oriente e al sud del mondo in questi ultimi decenni. Memorabili restano la ventina di monaci Shaolin portati in scena nell’atletico Sutra del 2008. Qui lo sguardo è esplicitamente diretto verso il Giappone, per far però reagire la tradizione di una cultura all’apparenza immutabile con la classicità della compagnia ginevrina. Ecco infatti che il primo ad apparire sulla scena, da solo, è un danzatore che veste un kimono molto colorato, impegnato in un assolo che anticipa l’ingresso a frotte dei molti danzatori, loro invece tutti uniformemente vestiti di nero. Se l’ormai storico Faun, riproposto in estate all’ultima Biennale danza con una nuova coppia di interpreti, circoscrive in un breve passo a due l’omaggio del coreografo a Nižinskij e Debussy, qui siamo davvero nel campo del “grande teatro”. Più di una ventina le danzatrici e i danzatori sulla scena, oltre ai musicisti che accompagnano l’azione e riempiono di canti e suoni lo spazio che si apre davanti alla gradinata lignea che occupa una gran parte del palcoscenico nella cavea dell’Auditorium romano. Sul fondo la trasparenza di un’alta cortina ne lascia intravedere la presenza.
Ukiyo, il mondo fluttuante, è uno dei termini tanto specifici della cultura giapponese quanto difficilmente traducibili. Vuol dire più o meno vivere l’effimero presente del qui-e-ora, la bellezza di ogni momento a prescindere dalla realtà che ci sta intorno. Le immagini del mondo fluttuante, questa è appunto la traduzione di Ukiyo-e, sono tramandate dalle xilografie di Hokusai e Hiroshige a cavallo fra Sette e Ottocento. Ma chi ha letto Un artista del mondo fluttuante di Ishiguro Kazuo può farsi un’idea del conflitto che può nascere, anche perché lo scrittore britannico nato a Nagasaki ambienta il suo romanzo nel Giappone sconfitto del primo dopoguerra, diviso anche generazionalmente fra chi è deciso a voltare rapidamente pagina e chi stenta a rendersi conto fino in fondo che i valori tradizionali in cui era cresciuto sono stati spazzati via insieme all’enfasi militarista che aveva portato il paese alla catastrofe.
Ma se il canto e la danza di Kazutomi “Tsuki” Kozuki e le percussioni di Shogo Yoshii, autore anche di incursioni in palcoscenico con un flauto traverso di bambù o un piccolo strumento ad arco, richiamano in maniera più diretta con quei loro kimoni l’iconografia del paese del Sol levante, le immagini di Sidi Larbi sono molto più contaminate. Lo dicono proprio le musiche che intrecciano le classicheggianti partiture per pianoforte e violino di Szimon Brzóska, compositore polacco con cui il coreografo collabora da molti anni, con le suggestioni elettroniche e rumoristiche di Alexandre Dai Castaing.
Tutto si ribalta continuamente sulla scena. Come le tuniche nere dei danzatori che si rovesciano nei mantelli che sembrano uscire da un colorato bagno di action painting. Al rivoltarsi dei costumi pure i movimenti ondosi della danza sembrano mutare di intensità, la dolce noia di quell’andare e venire senza posa d’un tratto si muta in una sorta di rituale collettivo. Come un Sacre di Stravinskij dove a turno tutti assumono il ruolo di vittime sacrificali. E quell’imponente gradinata da subito ha cominciato a frammentarsi in porzioni più strette che si scompongono e ricompongono in forme sempre diverse. Troppo facile pensare alle illusorie architetture inventate nelle incisioni di Maurits Escher. Viene in mente piuttosto quel che scrive Aby Warburg ne Il rituale del serpente, ricordando le danze rituali dei nativi d’America viste negli ultimi anni dell’Ottocento, quando osserva che gradini e scale rappresentano l’esperienza primigenia dell’umanità, sono il simbolo della conquista dello spazio verso l’alto e verso il basso. Quando impara a levarsi in posizione eretta, l’uomo conosce la “felicità del gradino” perché riceve al tempo stesso la grazia di poter levare il capo. Salire è l’atto simbolico che conferisce all’uomo la nobiltà del capo rivolto verso l’alto. Soltanto che qui, raggiunta lentamente la vetta, i danzatori continuano a lasciarsi cadere dall’alto, uno dopo l’altro, fidando nella presa di invisibili compagni.
In questo mescolarsi di tracce c’è spazio anche per le parole di Kae Tempest. Hold your own, dice la poetessa e musicista inglese per bocca dell’interprete immobile al centro della scena. Tieniti quello che hai, trattieni quel che è tuo. E questa è forse la traduzione più vicina a noi di quel mondo fluttuante che un poco ci pare di conoscere.
© Gianni Manzella