• La colorata apocalisse di Scimone e Sframeli

    Si era parlato di Pinter e Beckett, all’inizio, per ricondurre la scrittura teatrale di Spiro Scimone entro confini riconoscibili ai più. In realtà era apparsa subito evidente l’autonomia del linguaggio del giovane autore messinese, cioè la capacità di darsi leggi drammaturgiche proprie, e non solo per l’uso della lingua della propria terra fin tanto che da sotto quella maschera non fosse maturato un vocabolario espressivo altrettanto personale. Se mai guardando a una tradizione nostra, la più felice e produttiva, di attore che è autore della propria partitura scenica; o forse meglio, rovesciando i termini, di una scrittura modellata sui corpi degli interpreti, a cominciare dall’essenziale presenza a fianco di Francesco Sframeli che nel frattempo maturava un parallelo percorso registico dopo l’incontro con un maestro quale Carlo Cecchi.

    • Foto: Gianni Fiorito Foto: Gianni Fiorito
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    Ogni nuovo lavoro è diventato così l’ulteriore tassello di un mosaico sfaccettato. La costruzione di un mondo che è reale senza cadere mai nel realistico – non lo era nemmeno il primo Nunzio, che pure sembrava attingere a una quotidianità vicina alla cronaca nella costruzione dei personaggi. A ogni passaggio introducendo una variazione, una nota di un diverso colore, un nuovo scandaglio dentro la nostra contemporaneità. Come una messa a fuoco dello sguardo, capace di portare in luce zone diverse di quel personale universo, che intanto si andava arricchendo di nuovi personaggi, prima un terzo, poi un quarto, secondo la logica evolutiva della tragedia antica. Sintomo dell’aprirsi verso l’esterno di una drammaturgia che non prevede ruoli subordinati.
    Eccoli così presentarsi l’uno a fianco dell’altro nella nuova creazione, Pali, al debutto ad Astiteatro, sul palcoscenico del teatro Alfieri.

    Dopo quella vera e propria opera al nero che era la precedente Busta, il nuovo lavoro torna a proporre un’immagine più suadente e surreale ma non meno implacabile nella denuncia dello spirito del tempo. Sarà anche l’esplosione di colore sullo schermo posto a pittorico fondale della scena disegnata da Lino Fiorito, cui il mutevole gioco delle luci dona suggestioni alla Rothko. Un trascolorare acido di gialli e di rosa, mentre anche i due artefici si distinguono per i colori violenti della camicia, rossa l’uno e l’altro blu. Lì davanti si alzano i tre pali del titolo, da dove la Bruciata (Sframeli in parrucca nera, unica allusione a una femminilità puramente mentale) e Senzamani (Scimone, con le mani celate sotto i polsini cuciti della camicia) da sotto gli ombrelli aperti guardano il mondo che si stende ai loro piedi. Come in una manieristica crocefissione che ha non a caso i colori di Rosso Fiorentino e per via di rimandi può portare fino a una Ricotta pasoliniana. Ma se la loro posizione è quella dei due ladroni evangelici, ai fianchi del palo centrale ancora vuoto, il nostro posizionamento, di noi spettatori, è messo in questione.

    Si tratta in effetti di un ribaltamento della prospettiva, di un vero e proprio controcampo che dal mondo dei carnefici della Busta e della loro impotente vittima riporta verso gli anarchici ribelli del Cortile, con la loro voglia di “non digerire tutto”. Siamo anzi, più precisamente, al di là di quella barricata di cose buttate vie, di quell’artistica discarica di oggetti trovati, che là, nel Cortile, si ergeva a difesa del misterioso spazio abitato da personaggi rampanti avvezzi a passare le giornate arrampicati su un palo. Il luogo forse dei giochi dell’infanzia, degli amori ancora innocenti. Dalla breve altezza di quel Golgota pop possono esercitare un altro sguardo sulle cose. Hanno trasferito lì la loro teatralità. Parlano del tempo, del cattivo tempo che ci accompagna.

    Da quando stanno lì? Da quando abbiamo alzato la testa, rispondono ai nuovi venuti che irrompono con suono di banda, il Nero e l’Altro. Il primo, Gianluca Cesale, suona con convinzione un grande tamburo, il secondo, Salvatore Arena, assai malamente la tromba. E il loro arrivo è un impulso a sviluppare nuove combinazione dentro quel sapiente registro espressivo fatto di dialoghi secchi e  tormentosamente ripetitivi, dove proprio la ripetitività sottolinea una comicità stralunata che però non tira la risata, anzi fa da specchio a un pervasivo sentimento di insensatezza della quotidianità, a una evidente impossibilità di uscire da una situazione storica che chiama in causa anche la responsabilità dell’artista. La merda è merda e non può diventare mare, e l’invocazione al padre lassù perché ci liberi da tutta questa merda è poco più che rituale. Ci dobbiamo liberare da soli, è la lezione neppure tanto celata che viene da Pali. Perché tutti possono stare sui pali, basta trovare il palo libero.

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