Potrebbe essere il tempo di una giornata, o di un periodo dell’anno, come un calendario, dice Romeo Castellucci a proposito di Hey Girl!. Potrebbe anche essere un periodo della vita, questo tempo teatrale che l’artefice della Societas Raffaello Sanzio inscena nella sua nuova creazione. Un tempo che parte visivamente da un risveglio assai prossimo a una nascita, il lento sollevarsi della protagonista dal lungo tavolo che sta di traverso sul fondo dello spazio industriale, sotto un neon che ritaglia una zona di fredda luce baluginante nella nebbiosa oscurità del luogo.
Lentamente, con un respiro sordo, ansimante, quasi un lamento, si libera dalla sostanza gelatinosa dal colore rosato che la ricopre, che cola a terra lasciando come un bozzolo svuotato del suo corpo nudo. Si rialza, di spalle. Scende, sollevando le braccia. Accompagnata da un suono che cresce d’intensità si avvicina a una parete di fondo. Accosta il viso a uno specchio che per un attimo riflette un fascio di luce nell’oscurità della sala, ed è quel lampo come una frattura in cui bisogna lasciarsi precipitare per emergere al di là, in un’altra dimensione dello sguardo. Là dove l’immagine che si genera muta secondo la presenza di chi guarda.
Parte da qui, da questa soglia, sospesa fra sogno e veglia, l’avventura esistenziale della ragazzina, quasi ubbidisse al richiamo del titolo. Alla sua disincantata invocazione. Schnitzleriana signorina Else del XXI secolo, vien da pensare d’istinto. Per quella nudità rivelatrice. Per quel flusso gestuale in cui si condensa l’esteriorità di uno stato di coscienza. Ma anche, e soprattutto, senza contraddizione, rovescio femminile di Amleto. Quell’Amleto. L’Amleto duro e sgradevole in cui ci ostiniamo a vedere il punto di volta del tragitto artistico della Societas cesenate.
1992. Un solo attore in scena, Paolo Tonti, per un Amleto ridotto alla condizione di un bambino autistico. Vestito di nero, come si conviene, ma in calzoncini corti e maglietta con la zip, in mano una pistola da cui partono a ripetizione colpi fragorosi che scuotono il luogo in cui è rinchiuso. Un ring di batterie elettriche e vecchie macchine industriali che delimitano lo spazio scenico e dialogano rumorosamente con il protagonista. Si muove in una sorta di stupore estatico, che a tratti lo lascia “a boccaperta” come il santo Giuseppe da Copertino caro a Carmelo Bene. Non vola. Inciampa e cade. Si tortura il corpo. Salta sulla rete metallica che sta al centro dello spazio e che poi, collegata al circuito elettrico, andrà a fuoco sfrigolando nel buio con un’immagine memorabile. Dialoga con gli animali di pezza che ha eletto a simulacri della sua famiglia, il padre che è un orsacchiotto da prendere a calci, l’amico Orazio un pappagallo che ripete meccanicamente anche il rumore degli spari, la madre in forma di canguro; mentre Ofelia può essere a turno una parrucca o una vecchia bambola che annega nell’urina del protagonista. Poche battute in un inglese smozzicato, brandelli della tragedia shakespeariana. Piuttosto scrive sul muro, frasi come “I’m aborto” che via via si trasformano spostando e aggiungendo altre lettere. Urla a perdifiato il suo disperato “love me, love me”. Cerca nella vergogna la sua gloria, segreta e solitaria. Un Amleto tutto dalla parte dei figli. Di chi si trova di fronte a un’eredità mortale, quella di essere, o di essere alla scena, e può negarla solo attraverso la malattia, la regressione infantile, il rifiuto di crescere. È il dubbio “amletico” in cui si blocca il figlio di Agamennone e Clitemnestra nell’Orestea, costretto a uccidere la madre da un braccio meccanico che gli impone il gesto; o il dramma di Bruto nel Giulio Cesare, che trova sfogo solo nello svuotarsi del corpo nell’anoressia, per restare ad altri magistrali lavori della Societas. Non ci si libera nemmeno uccidendo i padri. Ma qui siamo davvero a un “finale di partita”, e non è solo la suggestione beckettiana di quel bidone spigoloso da cui escono le voci senza parola dei progenitori. L’atto rappresentato coincide con il luogo in cui lo si rappresenta, rivelando lo scandalo del palcoscenico.
Non è forse un caso che il punto di partenza del nuovo lavoro si trovi là dove l’altro pareva arrestarsi, l’anelato ritorno alla liquidità dell’utero materno, il molle abbandono di uno stato fetale. E in effetti tutto qui sembra essere il rovesciamento dell’altro, così come il maschile si rovescia nel femminile. A cominciare dallo spazio scenico, non più la fortificata barriera edificata da Amleto fra sé e il mondo ma uno spazio aperto e vuoto, dilatato peep show delimitato soltanto da un’invisibile linea di confine con lo spazio occupato dagli spettatori. Così come l’ossessivo fragore rumoristico delle macchine elettriche si muta in una musica seriale, a tratti dolcemente opprimente, intercalata di note pianistiche, ancorché capace di riempire l’ambiente di improvvisi crescendo. E al sangue apertamente richiamato sulla pelle di Amleto si sostituisce il gesto appena accennato di tagliarsi la gola con un dito, agli escrementi prodotti in scena si sostituisce una boccetta di profumo. Ed è quest’ultimo forse il rovesciamento più clamoroso, specchio di un altro capovolgimento, dalla sfera sacrale dell’eroe tragico a quella profana dell’infima materia. Hey Girl! si veste di una fragranza romantica, laddove Amleto metteva assai più brutalmente le mani nella materia corporea. Il suo femminile vive la tensione verso una forza maschile, quanto là il maschile si rifugiava nell’oscurità di una cavità femminile.
C’era l’evidente bisogno di un ricominciamento per Castellucci, dopo la conclusione della pluriennale avventura nomade della Tragedia endogonidia, punto di convergenza di una sperimentazione linguistica e produttiva che non lasciava margini di progresso. E che a sua volta aveva posto una cesura temporale alla straordinaria trilogia tragica che traversava la contemporaneità nei grandi libri del pensiero occidentale, dai greci a Shakespeare, al libro biblico della Genesi.
Da dove ricominciare, dunque. La risposta dell’artista è nitida e conseguente con la sua storia: dalla essenzialità del teatro, da uno spazio nudo e bianco e da un corpo che lo abita, in un nuovo azzeramento che non può non serbare le tracce di ciò che l’ha provocato. Che ritorna infatti in alcuni suoi esiti anche formali. Come una crescita protratta fino allo stadio in cui si intravede il disegno di una struttura nuova.
Ma è prima di tutto sul corpo dell’attore che riposa il lavoro, ancora una volta. Sulla verità del corpo, capace di per sé di creare un vero e proprio corto circuito della comunicazione, per intensità e acutezza. Ma anche sullo smarginamento del corpo, la labilità dei suoi confini. Il suo enigmatico essere qui e là. Superficie visibile e terminale di emozioni sottocutanee.
Il corpo in scena, la girl del titolo, è la giovanissima Silvia Costa, giovane attrice sottratta dal regista ai balli costrittivi della Stoa, la scuola sul movimento ritmico condotta da Claudia Castellucci. Corpo ambiguo, enigmatico appunto. Dall’identità imprendibile. Qualcosa meno di un personaggio, qualcosa di più di una situazione. Ma nemmeno creatura dell’interprete, o sua maschera. Un fantasma verrebbe da dire. Un fantasma creato dall’artefice (e a volte così intimo nella sua epifania da rasentare l’oscenità). E tuttavia presente eccome, fisicamente, perché almeno sulla verità di quel corpo in scena non si può dubitare. Un fantasma che si ribella al suo autore allora? o anche la ribellione è un fantasma dell’autore? (e qui siamo lontanissimi dall’Amleto di Tonti). Sono le domande che si pone lo spettatore, costretto a fare i conti con la frontalità dello sguardo a cui è condannato.
L’espressione di un tempo adolescenziale a sua volta in via di sviluppo, attraversato da ideali eroici e da mitologie quotidiane. La spada ardente, da maneggiare con circospezione. Il rossetto per le labbra e la boccetta di Chanel n° 5, simboli di una raggiunta ma immaginaria femminilità ridotti alla stregua di giochi, testimoni di un eden infantile che possono anche rimandare ai misteri sacri dell’antichità. Il pianto e il sorriso dal confine incerto. La confusione di chi non sa che cosa deve dire, che cosa deve fare.
In gioco non c’è il dramma dell’adolescenza ma l’adolescenza come metafora del dramma. Il suo carattere di informe, indistinto, incompiuto, stretto fra un passato troppo breve e un avvenire indistinguibile dal presente. Il bisogno di creare un altro mondo con la materia dei sogni.
Si inginocchia davanti a un tamburo. Vi si butta sopra con tutto il corpo. Comincia a percuoterlo rabbiosamente, alternando scoppi di pianto. Si riveste di jeans e maglietta. Si abbandona a terra a un respiro affannato che è come un soffio artaudiano. Un tremito le scuote la mano che sale alla fronte.
Ora è al centro dello spazio scenico, illuminato di una luce nebbiosa, crepuscolare. Per la prima volta alza il volto in luce davanti a sé, verso gli spettatori, verso qualcuno che sta di qua, in un sorriso di misterioso trionfo. Riprende ad ansimare, si stende a terra incrociando le braccia sul petto. Evoca le regine che hanno dato la loro testa al popolo.
Si trucca un po’. Un filo di rossetto sulle labbra. Immagina di tagliarsi la gola con un dito di profumo, poi ne versa qualche goccia sulla spada rovente che sfrigola odorosa. Si getta sulle spalle il manto della sua regalità, marcato a fuoco dalla spada con una grande croce che è anche segno di cancellazione. Impugna la spada. Si mette in posa, un piede appoggiato sulla boccetta di profumo. Ma il gioco è il capovolgimento del rito, e non può che sfociare in una negazione:
“Io odio i simboli / e tutta questa merda medioevale”.
Nella soglia fra sogno e veglia, come in un controluce, prende rilievo il gesto. O meglio, il suo stato nascente, il suo divenire visibile dall’indistinto in cui riposa. La liquefazione del gesto, intesa nel senso proprio della condensazione della materia, capace di rendere visibile, anche se ugualmente fluido, ciò che altrimenti resterebbe sostanza volatile, puramente aerea.
Gesto nudo, privo di contenuto. Così lo vuole l’artefice. Svuotato di significato. Quasi assente a sé. E tuttavia esibito, giacché la negazione del gesto ne afferma tuttavia la necessità.
Direi piuttosto un gesto inconcluso, che allude a un altrove inviolabile. Di cui invano cerchiamo di decifrare i tratti. Un gesto che pare seguire un disegno e incessantemente ne disfa la trama. Un gesto che rivela ma non racconta. In cui per un attimo possiamo scorgere l’orizzonte verso cui guarda Castellucci. Laddove il linguaggio emancipato da un fine comunicativo può disporsi a un nuovo uso.
Verso un teatro predrammatico.
Girl ora è arrivata in primo piano. La sua è infatti, visibilmente, una progressione lineare, dal fondo in avanti, fino alla linea di confine di un ideale proscenio. Una parabasi. Una fuoriuscita dallo spazio della rappresentazione per liberare al suo interno uno spazio in cui insediarsi, da cui rivolgersi direttamente a chi sta di fronte.
“Chi sei tu che nascosto dall’ombra della notte entri nel mio chiuso pensiero”, dice mentre si sposta da destra a sinistra, lungo la linea tesa fra una coppia di pannelli marcati dai caratteri luminosi R e L, l’uno rosso e l’altro bianco, che si fronteggiano ai due lati. Avanti e indietro per tratti sempre più brevi, e rapidi, nel fragore rumoroso e frastornante del suono di Scott Gibbons.
“Con un nome non so dirti chi sono / odio il mio nome che ti è nemico”.
Nel tessuto del lavoro si insinuano a sorpresa le parole shakespeariane del Romeo e Giulietta, il celebre passo del balcone, dialogo adolescenziale gonfio di sentimentalismo che però svela la percezione di uno stato interiore. La necessità di nominarlo, dietro il velo letterario.
Ma il sogno sconfina nell’incubo notturno. Entrano misteriose figure, presenze ostili che si accaniscono sulla ragazza, poi si raccolgono immobili sul fondo. Mentre sulla parete di fondo si proiettano in sequenza le parole parole parole di un lessico famigliare: cavallo pane nave albero cappello treno nuvola… Quasi un antidoto alle parole shakespeariane, il richiamo a un principio di realtà. O il tentativo di togliere loro la magia in cui sono imprigionate.
Girl scompare, riappare con una maschera che riproduce ingrandita la sua testa, avanza sventolando l’anarchica bandiera nera del suo spaesamento. Si toglie la maschera e l’appoggia a terra, si volta di nuovo con quel suo sorriso misterioso che si impone sulla consapevolezza di essere esposta allo sguardo. Dal fondo viene un pianto non suo. Esce e rientra conducendo per mano un suo doppio, vestita di uguali jeans e maglietta e con una maschera ancora più grande. Come uscita da quello specchio in cui la protagonista si rifletteva. Immagine di una dissociazione. Immagine in cui può rispecchiare il suo non sentirsi a casa, un rifiuto o un malessere da consolare con una carezza, con una parola rassicurante.
La spoglia, le toglie la maschera ipertrofica. Rivelando la pelle scura di Sonia Beltran Napoles, destinata a essere ricoperta nel finale di una vernice argentea che la trasforma in una statuaria figura di angelo guerriero. La sua stessa presenza sembra del resto un messaggio. Un uomo nero uscito dall’incubo l’incatena, la offre come una schiava, allunga il cappello per riceverne il riscatto. Ma sono ancora le parole di Romeo e Giulietta a proiettare la didascalia dello stato in cui la ragazza si trova imprigionata.
“Come, perché sei giunto fino a qui?”
La ragazza ora è immobile in primo piano, con la spada e il suo angelo alle spalle. Un raggio laser taglia la sala e si ferma sul suo viso, mentre sul fondo scorrono velocissime le parole ormai impazzite. Libera per la prima volta dell’incantesimo di quei gesti che non le appartengono, libera di ritrovare il proprio gesto. Il corpo sottratto alla sfera dell’uso così come al valore di scambio.
Il fondale viene ribaltato. Vi appare capovolto il volto dell’Uomo col turbante di Jan van Eyck. Autoritratto a rovescio che svela il coinvolgimento personale dell’artefice. Su questa soglia opaca si arresta l’artista. Consapevole che esiste una zona di non conoscenza con cui pure bisogna tenersi in relazione. Che a fondamento del teatro sta un irrappresentabile, una zona oscura che esige di essere guardata e costringe a distogliere lo guardo. Irraggiungibile e tuttavia testimone di una possibile verità del linguaggio, contro i dispositivi del potere. Che questo possa essere il compito del teatro è forse la lezione più politica che viene dallo scandalo del palcoscenico.