Portogallo, mio rimorso, dicevano i versi del poeta, in quegli anni lontani in cui ci si innamorava del lontano paese posto sulla soglia d’Europa. Ultimo lembo di terra davanti all’oceano. Dove la terra finisce e il mare comincia, per dirla con un altro poeta (ma Saramago ribaltava i due termini della formula di Camões). E ci si interrogava su cosa fosse per noi il paese lusitano, al di là dei pigri luoghi comuni che lo descrivevano. Il fado di Amália Rodrigues, il Benfica di Eusébio, il lungo regime di Salazar. Che altro? Poco prima dei garofani e di Otelo de Carvalho. Ó Portugal, se fosses só três sílabas, dicevano i versi del poeta. Se tu fossi solo una vista bella sul mare. Soltanto il sale il sole il sud, il cicalare delle estati. No, non era solo quello.
Non c’è Alexandre O’Neill, mi pare, non c’è l’irriverente sarcasmo del surrealismo sul “piccolo dolore alla portoghese”, nel nuovo spettacolo che Pippo Delbono ha presentato al Teatro Storchi di Modena e in Portogallo ha le radici (prodotto da Ert in collaborazione con svariati enti internazionali). Si intitola Amore, coraggiosamente. C’è invece l’immediatezza della poesia di Eugénio de Andrade, carnale e quotidiana, con i suoi rumori di acqua terra vento e l’urgenza gridata di amore parallela all’urgenza di distruggere le parole odio solitudine crudeltà. Che Delbono vi si rifletta, non stupisce. Come non stupisce ritrovare, fra i testi, come altre volte, il Prévert che canta questo amore così violento così fragile così tenero così disperato. Ma non è questione evidentemente di filologia. Semmai dei detriti di una educazione sentimentale d’altri tempi.
Piuttosto a far da filo conduttore dello spettacolo è la musica, il canto che della parola poetica fa da corrispettivo emozionale, nella foresta della memoria. E si prende la scena subito, fin dall’inizio, laddove per la prima volta non vediamo sul palco l’artista ligure a introdurre con una nota personale la chiave del lavoro. Con la voce della cantante angolana Aline Frazão che ricorda il suo paese. Con le musiche di Pedro Joia accompagnate dalla chitarra. Il fado cantato a piena voce da Miguel Ramos. Ma c’è un tempo anche per le note della Passione secondo Matteo.
Volevo fare uno spettacolo sull’amore e poi mi sono ritrovato malato, dice la voce dell’artefice che arriva dal fondo della sala con la musica di Bach. Invisibile ma presente. Ché anzi questa visibile assenza sembra rendere ancora più presente la malattia che racconta. Racconta Delbono di un momento tragico della sua vita. Un lutto dell’amore di cui ancora non riesce a parlare. La pandemia che l’aveva raggiunto mentre faceva il suo spettacolo sotto un vulcano che si era d’improvviso risvegliato, l’aggirarsi in una città deserta che sembrava una guerra, senza poter tornare a casa.
Perché questo dolore? si chiedeva Delbono a un certo punto del precedente lavoro, La gioia. Davanti a qualcosa che poteva parere incomprensibile. Sono passati più di tre anni. E tuttavia è impossibile non percepirne qui la continuità, come se Amore fosse a distanza una sorta di secondo tempo di quello. Un viaggio alla fine del dolore. Uno squarcio aperto per un istante su qualcosa d’altro. Nel mezzo c’è stata la morte di Bobò, il piccolo vecchio uomo dal sorriso infantile che per più di vent’anni era stato il cardine del suo teatro, da quando era andato a tirarlo fuori dal manicomio di Aversa dove stava confinato, e l’irrompere devastante della malattia collettiva. E poi quel lutto dell’amore da cui sembra impossibile uscire. Dolore che si aggiunge a dolore.
Potrebbe essere l’immagine di una condizione quell’alberello secco posto da un lato, che il vento ha storto tutto da un lato. Inquadrato fra le nude pareti di un cupo colore rosso che le luci possono anche dipingere per un attimo d’azzurro, ma poi ritornano sempre a quel presagio di fuoco e di sangue. Se non intervenisse la parabola del maestro che ha chiesto all’allievo di salire ogni giorno alla montagna per dargli acqua, all’albero secco. Ed ecco che un giorno sull’alberello spuntano miracolosi boccioli. Può un gesto inutile ripetuto ostinatamente per anni cambiare il mondo?
Intanto sulla scena, in un vortice di suoni e di balli, si moltiplicano le immagini visionarie che sempre popolano il teatro dell’artista ligure. Poetiche, grottesche, vagamente minacciose. Una solitaria danza sulle note della morna, la musica di Capo Verde. La processione degli uomini che coprono di collane la nudità di una donna. L’abbraccio che compone una laica Pietà. Le scorribande di simulacri animali. La solitudine indecifrabile di una donna seduta a fumare, avvolta in una triste pelliccetta, che sembra ritagliata da un dipinto di Edward Hopper. Epifania dell’attesa e dell’assenza. Un’altra che si dipinge il volto di rosso. Un uomo che stringe a sé qualcosa che si sfarina a terra in un mucchio di sabbia. Una lettera stropicciata, una fune tirata fino a strapparsi. La festa messicana dei vivi e dei morti ritmata dalle nacchere, mentre sul palco un gruppo di maschere tutte in abito bianco compone un ballo corale.
(Ci sono tutti gli attori della sua compagnia, Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Grazia Spinella e il fedele Pepe Robledo, da quasi quarant’anni compagno dell’avventura teatrale di Pippo Delbono, tutti un po’ appesantiti dagli anni ma che bello è questo segno lasciato dal tempo sui corpi).
Solo alla fine Pippo Delbono emerge dal fondo della sala per riprendere possesso della scena, come lo abbiamo visto fare tante volte. Lui pure vestito di bianco che è colore di un lutto pacificato. Sull’alberello secco qualcuno ha innestato rami di fiori bianchi, pare un ciliegio giapponese di primavera. Non è la colorata esplosione floreale che invadeva la scena nel finale de La gioia ma forse proprio per questo un segno ancora più tenace di ostinata resistenza. Sotto l’alberello fiorito va a sdraiarsi Delbono, forse nel sonno sogna uno spettacolo che si chiama Amore. Prima di prendere per mano i suoi attori per i saluti. Ed è come se ci prendesse per mano tutti, noi che siamo lì un po’ commossi. Il dolore non è finito, ci dice, ma nemmeno la volontà di rincorrere insieme la fragile possibilità della gioia. Là dove finisce il mare e comincia la terra.
© Gianni Manzella