Comincia che sono già lì. Disposti in circolo sul vasto palcoscenico del teatro Strehler, i quattordici interpreti di Bestie di scena sono impegnati in un training vagamente coreografico. A turno uno di loro si porta al centro del cerchio e detta i movimenti al gruppo. A un certo punto si raggrumano in una formazione compatta, una sorta di cuneo che si sposta con passo pesantemente ritmato, mentre le luci in sala vanno un poco calando. Ma perché Emma Dante ha voluto convocarci di fronte a questo lungo riscaldamento degli attori? Giacché una necessità deve esserci. Era partita per raccontare il lavoro degli attori, ci dice la regista palermitana. La loro fatica. La solidarietà che li lega. La precarietà della loro condizione. Poi da questo progetto si è allontanata, o forse il progetto si è allontanato da lei. E quello a cui assistiamo è ciò che ora ne resta. I detriti di uno spettacolo mancato.
Intanto il gruppo si è scomposto nelle corse a perdifiato degli attori. Hanno preso a marciare avanti e indietro, e qualcosa si illumina nella memoria. Quando arrivano a filo del proscenio, cominciano a spogliarsi degli abiti, buttandoli giù dal palco prima di ricominciare quel moto pendolare. Per trovarsi alla fine schierati tutti di fronte agli spettatori, nella raggiunta nudità. Le mani a coprire i genitali, nella posa ricalcata sul dipinto di Masaccio nella cappella Brancacci. Ma non c’è nessun Paradiso alle loro spalle, su quel palco. Non c’è nessun luogo da cui venir cacciati. Semmai, al contrario, c’è un luogo da cui è impossibile nèsciri, com’è nel teatro di Emma Dante fin dal primo rivelatore mPalermu. E conviene liberarsi subito dalla suggestione di una citazione figurativa tanto dichiarata quanto fuorviante, tornerà buona poi.
Ecco, a vederli lì tutti in fila, su quella soglia che non riescono a varcare, da cui poi sono inevitabilmente ricacciati indietro, qualcosa nella memoria assume maggiore concretezza. Non è un caso che lo sguardo si concentri sui volti piuttosto che sui loro corpi nudi. Perché li riconosciamo, quegli attori e quelle attrici. Voglio dire che la loro presenza ci è familiare, nel senso più affettivo del termine. Ecco le “sorelle Macaluso” dello spettacolo più amato di Emma Dante, sono loro a guidare i movimenti corali di questa “classe morta” – e non si nomina mai invano il nome di Kantor di fronte a un teatro altrettanto capace di guardare in faccia la morte. Non è forse una di loro quella che gira su di sé in una danza solitaria? Ma ecco uscire dall’album di famiglia anche i due “ballarini” della Trilogia degli occhiali, e Sabino Civilleri c’era già agli inizi della compagnia Sud Costa Occidentale. Come se l’artefice avesse voluto convocare su questo palcoscenico tutta la sua storia artistica.
Formalmente Bestie di scena è un “atto senza parole” di chiara ascendenza beckettiana. Lo dicono quegli oggetti che un oscuro demiurgo si diverte a gettare in mezzo alla scena. Una tanica d’acqua. Un lungo telo dietro cui nascondersi. Una bambola parlante e tanti palloni. Una spada che invita alle mosse di un duello. Loro stanno al gioco. Fedeli al dettato per cui quando un oggetto entra in scena prima o poi qualcuno deve usarlo. La bambola genera per emulazione un balletto meccanico. Risuona struggente un carillon. Volano stracci e scoppiano fra i piedi petardi. Una pioggia di noccioline trasforma il palco in un pianeta delle scimmie. L’esplodere inaspettato della vecchia Only you dei Platters spinge una coppia a un ballo solitario. Dall’alto scendono secchi e spazzoloni per ripulire collettivamente la scena da tutto l’entropico disordine che vi si è accumulato.
Se fossimo in uno spettacolo di Jan Fabre potrebbero andare avanti a lungo, fino allo sfinimento. Qui tutto a un certo punto si accavalla disordinatamente. Le corse e la ballerina che ruota di sé e la coppia che balla il suo Only you, in un acido girotondo pure molto kantoriano. Ma quando sulla scena piovono gli abiti e le scarpe con cui rivestirsi, con un gesto di ribellione se li lasciano alle spalle per tornare in fila, immobili, a margine del proscenio. Senza neppure più il bisogno di nascondersi dietro una mano. Ecco che quella immagine iniziale assume un senso. Come a dire che quel luogo da cui non possono uscire ormai è casa loro. Una palestra dei sentimenti. L’artefice è uscito dal quadro in cui stava piantato dal tempo delle Meninas di Velàzquez, i suoi soggetti sono tornati padroni del loro sguardo. Non ce ne libereremo facilmente.