Ferma davanti a una parete che forma un alveare di loculi ciechi, una ragazzina recita un’inquietante litania sulla sua “prima volta”. Il corpo senza grazia di un uomo vecchio, un uomo di Chiesa. La torta con le dodici candeline. Lasciati andare. Perché piangi. Le parole diventano una sciamanica evocazione di quel che ancora non è stato, mentre le mani prima composte ora artigliano le cosce con una tenera stretta. (L’ossimoro qui è di casa). Poi la parete si abbatte fragorosamente e diventa il palco di una scena teatrale. Ci ritroviamo all’interno di una sala violacea quasi vuota dalle pareti rigate dal tempo. Un giornalista interroga le donne della casa, una casa che un tempo è stato un famoso bordello, sul caso che fa rumore in città. I miracoli che sembrano doversi attribuire alla ‘signora’ che qui rinchiusa conduce da quei dì una vita penitenziale, in osservanza a una promessa fatta al momento della morte dell’antica tenutaria, il cui grande ritratto sta appeso sul fondo.
Una santa femmina, la signora Assunta. Può ben testimoniarlo lei, Cleò, ex prostituta redenta oltre che guarita da certe pustole con cui si manifestava sulla pelle il “male moderno”. Quando finalmente appare, lenta e cerimoniale e con le mani bendate distese avanti a sé, viene da sospettare che ci sia del metodo in quest’immagine di folle di dio; gioca con la sua ignoranza ma si sospetta che sia pronta a colpire. Qualche dubbio in realtà circola. Qualcuno mormora che quelle virtù taumaturgiche si sono manifestate davanti alla minaccia di uno sfratto. A reggere la casa è però un’altra donna ancora, Titina, la madre della ragazzina. Non si sa da dove arrivi ma certamente ha portato un tocco di managerialità anche nella gestione dei miracoli della santa. Gli ammalati arrivano a frotte. È lei ad annunciare la visita del Cardinale alla casa. Sarà lui lo strumento di quella catastrofe che conclude virtualmente il dramma al termine della prima parte. L’Uòrco c’o mantello viola. Lo vedremo andare incontro alla piccerella vestita “un pochettino accattivane” su un aereo praticabile, prima che le luci sparate in platea accechino gli spettatori.
Messo così da parte l’antefatto e assorbita in qualche modo la stessa vicenda, che potrebbe apparire eccessiva se la cronaca non tentasse continuamente di superarla, ci si può interrogare su cosa sia questa favola nerissima e cattiva, Bordello di mare con città, che Enzo Moscato scrisse trent’anni fa e mai però andò in scena. E con qualche ragione. La distanza temporale si sente tutta, non perché il testo sia ‘datato’, come si usa dire, ma perché una linea di frattura passa proprio attraverso di esso, lo taglia a mezzo separando ciò che è stato da ciò che sarà da lì in poi. Da una parte un “angelico bestiario” di fragili personaggi che (ancora) vivono una loro poetica e disperata esistenza lungo un margine della città, una drammaturgia che (ancora) si fonda su un’ingannevole trama, per quanto nera e ironizzata; dall’altra un linguaggio che ha rotto gli argini della narrazione e corre verso un’artaudiana crudeltà. La si coglie già alla prima lettura questa improvvisa rottura linguistica che interrompe il dialogo, fondamento fin dalle origini della struttura drammatica, e trasforma il testo in un concerto di voci. E la regia di Carlo Cerciello dilata questo iato fino a farne la chiave visiva dello spettacolo misterioso e visionario presentato al teatro Bellini di Napoli (la produzione è del Teatro Elicantropo e della compagnia Elledieffe diretta da Carolina Rosi).
Quando si riapre il sipario, la scena non c’è più. Cioè non c’è più quel teatro lì, siamo precipitati in un’altra zona dell’arte. Ancora più estrema. Quel che appare è una delirante Deposizione orchestrata intorno alla piccola bara bianca che sta eretta sul fondo, fra due marmoree cornucopie a fungere da candelieri e ai piedi una grande maschera pulcinellesca. Le due Maddalene hanno sciolto i capelli e stanno ai lati, immobilizzate in una posa scomposta; al centro giace disfatto il Cardinale, denudato di ogni simbolo di sacralità. Le loro voci si piegano sulle musiche di Paolo Coletta che partono con un che di Song brechtiano ma poi virano verso tecno e pop, assecondate dall’esplodere colorato delle luci. Anche il giornalista si è fatto letteralmente da parte, se ne sta seduto da un lato a leggere le sue battute dal libro che tiene in mano. Non per caso Moscato ha tenuto per sé questa parte, o vi è stato spinto. Quasi ad assumersi con questo gesto la responsabilità etica di essere autore, che lo pone su quel margine dell’opera – e non per caso l’ultima parola è sua, con le parole di Emily Dickinson su un ragno che di notte tesseva la sua strategia.
Sono trent’anni anche dalla morte per tanti versi assurda di Annibale Ruccello, il compagno delle prime avventure teatrali di Moscato. E qui lo ritroviamo presente con una evidenza che non può lasciare dubbi. Suo è infatti il volto giovanile del ritratto, come appariva nel suo primo lavoro, Le cinque rose di Jennifer. E non è beninteso un mero omaggio all’amico. Troppi sono i fili, qualcuno anche segreto, che nello spettacolo si intrecciano intorno al suo nome. Bordello di mare con città nasce su commissione proprio dopo l’incidente stradale in cui aveva perso la vita Ruccello, e ne reca la traccia, come un debito da pagare per liberarsi da un’eredità non cercata. Un sontuoso commiato dall’universo espressivo in cui si erano mossi i due artisti. Giacché accanto e dietro al bordello ci sta la città con i suoi miasmi, ci sta la prostituzione come metafora, la perdita dell’innocenza come destino. Un trionfo della morte. Non stupisce che non abbia avuto allora esito scenico. Il vero saluto a Ruccello sarà per Moscato la struggente e dolorosa spoglia cerimonia di Compleanno, lavoro non per caso in solitario.
Trent’anni dopo Bordello di mare con città può liberarsi dei suoi fantasmi. Qualcosa insomma vorrà dire la caduta del muro che abbiamo visto crollare al principio, ed era la scena disegnata da Roberto Crea per quel disturbante Scannasurece che Cerciello aveva messo in scena l’anno scorso, con un’altra straordinaria manovra di recupero. Liberando così anche il gioco delle quattro signore della scena napoletana che sul palco che si è aperto danno vita a questo pauroso balletto. In primo luogo la metamorfica Donn’Assunta di Fulvia Carotenuto e la più composta Donna Titì di Imma Villa, che animeranno il ‘compianto’ finale in un emotivo rovesciamento della loro immagine iniziale. Subito dietro Ivana Maione e Cristina Donadio, Cleò e Madamina, le due ex del mestiere tutt’altro che pentite, quasi lo specchio offerto alle prime due. Senza dimenticare il contributo di Lello Serao e l’apparizione dell’acerba Sefora Russo a completare una partitura perfetta. Teatro, come ogni tanto capita di vedere.
© gianni manzella