Il viaggio è finito, dice Constanza Macras. È ora di tornare a casa. In un posto sicuro, dove si possa lasciare fuori dai cancelli paure e violenze. Come questo Brickland, che forse esiste davvero nei dintorni di Buenos Aires e infatti le immagini filmate ci mostrano a tratti i suoi viali ordinati, le villette sobriamente eleganti, i parchi alberati. Ma che prima ancora è un luogo che appartiene forse al mondo dell’infanzia o delle fiabe, un paradiso artificialmente ricreato per una comunità agiata che vediamo all’opera nei suoi riti sociali e nelle sue pratiche sportive. Prendere il sole in libertà. Giocare solitari a golf o affollarsi con le racchettine del badminton intorno alla rete tesa in mezzo al campo. Ordinare su amazon.com una globalizzata lista di nozze, mentre si canta in coro l’elogio del matrimonio, sotto lo sguardo pervasivo dell’addetto alla Security e l’imperversare di un’agente immobiliare meno severa di quel che vorrebbe il suo abito.
Questo è il contenuto esplicito, cioè la superficie apparente di Brickland. La maschera dietro cui cela il suo volto nero la nuova creazione di Constanza Macras.
Abbiamo viaggiato a lungo, in questi ultimi anni, con l’artista argentina fuggita giovanissima ad Amsterdam e New York per studiare danza e da un decennio fissa a Berlino con la sua compagnia Dorky Park. In Scratch Neukölln ci aveva portato in un popolare quartiere berlinese, approdo di immigrati, fra bambini campioni di street dance. E naturalmente lo strepitoso Big in Bombay portava forte l’odore dell’India, con quei corali movimenti coreografici che citavano spudoratamente il cinema di Bollywood. Fino al viaggio più perturbante, nella tropicale foresta di No Wonder (purtroppo non visto in Italia, e lo meriterebbe) in cui l’artefice aveva scelto di rimettersi in gioco impudicamente in prima persona, per un corpo a corpo con i fantasmi del suo paese.
Perché il viaggio, è chiaro, avviene tutto nella mente. È il voltarsi indietro agli anni della giovinezza di Back to the present, con la consapevolezza che non si può poi che “ritornare al presente” lasciandosi alle spalle la distesa di orsacchiotti di peluche. È l’emergere spiazzante di una memoria dolorosa nel più recente I’m not the only one, laddove il coinvolgimento personale investe piuttosto gli attori della compagnia, in un ritratto dell’artista come sradicato che allude a una condizione di perdita, di abbandono in cui può però riflettersi una parte non trascurabile di umanità. E che sembra il punto di partenza più appropriato verso quest’ultimo Brickland, arrivato al Comunale di Ferrara a un paio di mesi dal debutto berlinese.
Ciò che Macras ci pone davanti è come d’abitudine un universo un po’ caotico, anche se di un caos ben temperato si tratta. C’è da un lato una terrazza pensile con tanto di fontana al centro, e le sedie di plastica da giardino, le piante in vaso, il barbecue. Ad avvolgere parzialmente la scena un’intelaiatura di legno formante la struttura arcuata di uno scivolo, solo in parte dotata di pannelli di chiusura, come a suggerire un che di provvisorio o di non finito. E poi un divano di pelle. Due tende a igloo, una colorata d’oro e l’altra argentata, simulacri delle casette in vendita ma anche strumenti di sorprendenti gag, con gli interpreti che vi saltano dentro o se ne avvolgono, ne fanno persino un deltaplano. In questo spazio privo di reali connotazioni geografiche vanno in scena azioni frammentate e pasticciate, apparentemente incontrollate, a volte un po’ deliranti, a volte spinte verso una comicità slapstick, che solo a tratti possono liberare una danza. Giocate dagli attori sull’onda delle canzoni d’epoca suonate da un trio di musicisti, secondo quel che è ormai lo stile riconoscibile della coreografa, divertito e divertente per gusto di commistioni pasticciate. Che, bisogna pur dirlo, ha assai poco a che vedere con il Tanztheater di Pina Bausch (genere che per altro ormai sopravvive solo come sigla dell’ensemble di Wuppertal). E lasciamo perdere per carità Rodrigo Garcia, che è raffronto proprio fuorviante, per chi solo conosce un po’ Macras. Non c’è nessuna voglia di provocazione nel suo lavoro, nessuna denuncia anticonsumista.
C’è invece quel che si era azzardato a definire uno sguardo pornografico, che dal denudamento dei comportamenti quotidiani, dei rapporti personali prima ancora che sociali, arriva dolorosamente al fondo della notte della memoria. Un denudarsi che chiama in causa l’autobiografia, richiamata esplicitamente nella contrapposizione fra identità e identificazione. Così gli interpreti che vorrebbero essere personaggi, in realtà non possono esserlo, ed è questo forse il punto di attrito dello spettacolo, la zona di resistenza che lascia un’ombra di irrisolto. Dietro i riti del barbecue fumante di salsicce di soia, dietro le chiacchiere sulla fine del boom economico e gli slogan del femminismo storico, ci sono loro. La loro voglia di danzare come Gene Kelly o di sambare a felicidade. Quel girare tenendo stretto il barattolone di Nesquik, e sguazzare poi in una melma di cioccolato. Quel silenzioso scivolarsi addosso. Ma anche la violenza continuata degli schiaffi o di un erotismo impotente.
Brickland è lo spettacolo più nero realizzato da Constanza Macras. Parla dell’angoscia (o con l’angoscia) della ricerca di sé. Di un posto dove stare. Il viaggio non è finito, ne siamo certi. Ci aspetta presto un’altra tappa.