Ché poi ti viene in mente Francesco Guccini. Venite pure avanti, voi con il naso corto. Signori imbellettati, io più non vi sopporto. Infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio. Perché con questa spada, vi uccido quando voglio. E giù con un’altra “avvelenata” contro il potere che determina lo stato dell’arte. Poeti sgangherati, inutili cantanti, politici rampanti, ruffiani e mezze calze, conduttori di trasmissioni false che hanno fatto del qualunquismo un’arte, ce n’è per tutti… Insomma, ti viene da pensare, mentre sei lì che attendi che finalmente si mettano in azione gli attori del Cirano deve morire di Leonardo Manzan, ti viene da pensare che oggi dire Cirano richiama forse alla mente più il maestrone di Pavana che il dramma di Edmond Rostand, ché poi a chi viene in mente oggi di metterlo in scena questo fumettone francese del 1897, lo spadaccino dallo smisurato naso, il bacio ch’è una parentesi rosa… A Mosca c’era già Stanislavskij che faceva il Gabbiano di Čechov con quell’evocazione di forme nuove che anticipava tutto il Novecento. Che muoia allora Cirano e tutto quel vecchio teatro. Ma forse c’è un’altra storia da raccontare, o un altro modo di raccontare quella storia. Siamo davanti a un vecchio palazzo di periferia. Rossana ogni giorno si affaccia al balcone, rilegge ogni giorno lo stesso copione, una storia di quattro secoli fa. Dice così, l’attrice. Confondendosi un po’ nel personaggio.
Sono già lì i tre attori, all’ingresso in sala degli spettatori. Rossana in alto, al centro del canonico balcone, che però bisogna un po’ immaginarlo in quell’impalcatura metallica che attraversa la scena di Giuseppe Stellato, un trabattello a ponte e tutt’attorno una muraglia di bauli, di quelli in uso anche a teatro per conservarvi i costumi, su quelli che stanno più in fondo comparirà la scritta “Ti amo” in vernice rossa. Bellissima nel suo abito secentesco che solo alla fine lascerà il posto a una lunga veste bianca. Gli altri due se ne stanno accucciati in basso, un po’ in ombra, quasi a rendere fisicamente visibile da subito il triangolo che hanno formato. Cirano ama Rossana ma Rossana ama Cristiano. È tutto lì. Quando si tirano su, comincia un prolungato duello metafisico. Un duellare pallido e assorto, immobili e quasi indifferenti al loro gesto. Un incrociare le lame che si toccano appena, tic-toc-tic. Quando finalmente finiscono, fanno un po’ di esercizi di riscaldamento e poi, macché, ricominciano come prima, tic-toc-tic. Per farli smettere deve venir giù lei e lo fa a colpi di randello sulla schiena, anche piuttosto vigorosi. A mettere in chiaro che lì la protagonista è lei, non quei due che le hanno rovinato la vita. Tocca a lei infatti prendere per prima la parola, celebrando in versi il cimitero del teatro con parole troncate a metà. Da Shakespeare a Pirandè, Grotowski o Stanislà? (Ma forse in questo cimitero ci sta un po’ di nostalgia per i ” giorni del teatro” che non si sono vissuti).
Questo sorprendente Cirano deve morire, scritto dal regista insieme a Rocco Placidi e benissimo interpretato da Paola Giannini, Alessandro Bay Rossi e Giusto Cucchiarini, Manzan l’aveva presentato alla Biennale veneziana del 2019, ancora sotto la direzione di Antonio Latella. Poi si sa, è arrivata la pandemia con quel che n’è seguito. Adesso è stato rimesso in scena al teatro Vascello, e promette di girare ancora nel prossimo anno. Lo merita. Ciò che promette in realtà è uno spettacolo concerto con musica rap, dj set e luci strobo. Tutta l’attrezzeria di una discoteca, che infatti richiama un pubblico giovane (anche molto giovane) forse non abituato alla sala teatrale ma che non si tira indietro quando è sfidato a rispondere a un duello verbale.
Anche Manzan ce l’ha con il potere e il sistema teatrale tutto, persino contro i “critici” poveretti che di potere proprio non ne hanno più; però magari è vero che c’è ancora chi farebbe di tutto per comparire in quelle otto righe cacciate a fondo pagina dell’autorevole quotidiano. E la sua “avvelenata” l’affida a un Cirano in veste rapper che traduce in termini contemporanei, diciamo così, i poetici giochi di parole del suo predecessore. Chi vuole sfidarmi? Niente di particolarmente scandaloso, gli “insulti al pubblico” hanno una loro tradizione sulla scena. Certo, la contesa è diseguale. Il rapper che sta sul palco può permettersi le sue volgarità ben temperate, mentre ai provvisori interlocutori è lasciato il ruolo di consapevoli vittime del gioco. Ma l’effetto intimidatorio non va oltre il microfono messo e tolto da sotto il naso. La questione è sempre chi ha il potere, avrebbe commentato Humpty Dumpty.
Piuttosto Manzan lavora di sottrazione. Via lo spadaccino dal gran naso. Via il mantello sulla spalla e il cappello piumato, restano solo gli stivaloni alti fino alla coscia sotto la felpa col cappuccio tirato sul capo che costituisce la divisa del rapper. Via il romanticismo dolciastro dell’apostrofo rosa che ormai fa venire in mente soltanto i Baci Perugina. Via anche quel cameratismo maschile che sembra resistere a ogni prova. Quello che resta alla fine… già cosa resta? Qui se serve viene in aiuto la Grande Metafora. La cipolla sbucciata da Peer Gynt, per esempio. A ogni strato che togli ne appare un altro finché alla fine ti accorgi che non resta niente in mano, la cipolla non c’è più. Per scoprire però che la cipolla, in questo caso Cyrano de Bergerac, è proprio quel sovrapporsi di sottili pellicole.
Forse quel che resta è il sentimento molto giovanile di essere soli contro tutti. Che qui si moltiplica per tre. Ciascuno chiuso dentro la propria storia, che scivola con un po’ di attrito sulle altre. Soli e perdenti. I’m a loser, cantavano quei quattro. And I’m not what I appear to be. Anche Cristiano il bello, stupido ma bello, ha diritto al suo quarto d’ora di celebrità, per rivelarsi più doloroso di quel che dicono le sneakers Puma in tinta con il cappellino naturalmente portato a rovescio, con la visiera sulla nuca. Alla fine Rossana rimette a Cirano il lungo naso, cioè la sua maschera o se si vuole la sua convenzione. Cirano è stato ucciso. E al fin della licenza io non perdono e tocco. È sempre la voce del maestrone che continua a risuonare in testa.
© Gianni Manzella