È uno spettacolo di raffinata eleganza questo funereo Non si sa come che Federico Tiezzi ha messo in scena per un quartetto di attori capeggiati, con la maestria che gli si riconosce, da Sandro Lombardi. Un monumento funebre alla memoria del Teatro borghese (la maiuscola è d’obbligo) qui evocato da un dramma marginale di Pirandello o forse una commedia spruzzata di nero, un riluttante vaudeville composto alla metà degli anni trenta, dunque più o meno coevo dei ben più sostanziosi Giganti della montagna. Un mausoleo, piuttosto che il conforto di una villa di campagna umbra o toscana, è già l’interno che si offre allo sguardo dello spettatore. Alte pareti incorniciate da boiserie di un cupo color rosso carminio, che inquadrano neutri fondali e inevitabili poltroncine e divanetti dal rivestimento in tono; oppure tagli verticali di una luce bluastra che immergono in un’atmosfera notturna la sala da musica su cui si apre il sipario.
Non si è detto infatti per caso di un quartetto, proprio nel senso musicale del termine; è il quartetto per archi di Schubert La morte e la fanciulla, in cui sono impegnati, a introdurre i protagonisti della vicenda. Due coppie di coniugi, dai nomi molto teatrali, i Daddi e i Vanzi, con quei loro strumenti musicali sempre a fianco che sembrano indicare anche i rispettivi ruoli, se non proprio una gerarchia; agli uomini i due violini, viola e violoncello invece in mani femminili. E non ci sarebbe motivo particolare per soffermarsi su questo breve quadro introduttivo, se non fosse che gli interpreti portano tutti una grande testa triangolare da rettile. Come coccodrilli in abito da sera. Con tutte le associazioni che questa immagine di stampo surrealista suggerisce, da Max Ernst in là, anche come periodo storico cadono giuste le illustrazioni di Una settimana di bontà. Predatori annoiati. Residui umani di un’epoca preistorica. Soprattutto creature uscite da un sogno o da un incubo, qui l’inconscio la fa da padrone. Non per caso coscienza è la parola che compare più spesso nel testo, magari per contrapporvi l’incoscienza dei corpi.
Tutto si gioca infatti intorno a un delitto innocente, commesso da Romeo Daddi non si sa come, a propria insaputa per così dire. In un faunesco assolato après-midi è capitato qualcosa con la moglie del padrone di casa, che qui è Elena Ghiaurov, bellissima in quelle mise d’alta sartoria a ogni ora del giorno e quei capelli corti di una biondezza estrema accortamente spettinati. Un cedimento della coscienza, quel momentaneo sconvolgimento erotico, come in sogno appunto. E infatti lei come un sogno che svanisce all’alba ha già chiuso l’episodio. Lui no. Ci perde il sonno, in qualche oscura maniera vorrebbe che la cosa trovasse una spiegazione. Sospetta della moglie, potrebbe pur essere, visto che è potuto capitare all’altra, benché all’apparenza così innamorata e fedele al marito… Ci gira intorno confessando la futile uccisione di un ragazzo, tanto tempo fa. Anche questa non si sa come avvenuta e perché, come per lo straniero Mersault di Camus. Gioca alla follia come superamento della realtà, ma: tu non sei pazzo, lo fai – gli replicano gli altri già infastiditi (completano l’impeccabile quartetto Pia Lanciotti e Francesco Colella).
Ma qui ci si deve fermare, tutto si può rimproverare a Non si sa come tranne che un attacco alle convenzioni sociali. O a quelle teatrali. L’eccezionalità del personaggio ne giustifica le sconvenienze agli occhi del buon senso borghese, che anzi proprio per questo può uscire dal teatro confermato nelle proprie convinzioni. Più superficiale di quanto non paia, avrebbe forse commentato Gramsci che il teatro di Pirandello l’aveva frequentato assai. Tutto quel filosofeggiare pallido e assorto mena infatti diritto al più convenzionale topos del teatro borghese, una questione di corna. Forse per questo la regia di Tiezzi vira progressivamente verso il vaudeville, con veri e propri momenti di commedia slapstick, balletti pistola alla mano, riapparizioni di quegli innocui lucertoloni, prima di tornare all’iniziale sala da musica per la resa dei conti…
Someday he’ll come along The man I love, dice la canzone che ha preso il posto di Schubert. Ma Gershwin rischia di portare fuori strada, cioè di buttarla sulla dialettica sentimentale, sui frammenti di un discorso amoroso andato in pezzi. Soprattutto se si guarda indietro a Un amore di Swann. È impietoso il confronto con la leggerezza e la profondità dello spettacolo che Tiezzi e Lombardi, un paio di anni fa, avevano ritagliato dal grande affresco della Recherche proustiana, da cui pure arrivano quelle maschere da coccodrillo. Troppa è la distanza che separa l’uomo a una dimensione di Pirandello dalla cognizione del dolore del personaggio di Proust, dalla sua disincantata consapevolezza della finzione dei sentimenti. Come qui va a finire, lo si può facilmente immaginare. Quando una pistola compare sulla scena prima o poi deve sparare, insegnava un maestro ancora attuale.
© Gianni Manzella