Comincia che era una sera d’estate al teatro romano di Verona. In alto si era alzato il disco rotondo della luna, piatto e giallo nell’ultima luce del tramonto: ed era stato quasi inevitabile rivedere la luna di Salomè, contro cui sorgeva il corpo affilato dell’omonima Donyale nel più visionario dei film di Carmelo Bene. Era il 1994, l’estate dei mondiali di calcio negli Stati Uniti. Carmelo Bene tornava su una scena, dopo quattro anni di silenzio. Tornava, ancora una volta, all’Amleto di o da Jules Laforgue, ormai lontano da Shakespeare. Hamlet suite aveva voluto intitolare quest’ultimo musicalissimo spettacolo-concerto per voci e rumori, capace di dilatare ogni nonnulla in un boato in progressione con lo scivolare dell’artefice verso l’immobilità e il silenzio. Tanto da assumere il senso del riepilogo di un destino personale e al tempo stesso di quello dell’artista, del fare artistico stesso. Non a caso le suggestioni offerte si dilatavano ben al di là di un unico testo nello spazio preparato della scena, nel calcolato disordine della provvisorietà dell’artista girovago. Le casse del guardaroba teatrale di un altro Amleto “di meno”. Dietro, i pezzi di armatura abbandonati da Macbeth. Da un lato, la sposa ancora col velo nuziale, ma lesta a spogliarsi dell’abito bianco alle note della marcia di Mendelssohn. E in mezzo lui, l’artefice, incespicante fra veli bianchi e brandelli di armatura, tentato a baloccarsi con i pezzi di un manichino, mentre sfogliava le pagine dello spartito o le buttava via dopo aver letto poche parole dell’inservibile copione. In quel vortice di fremiti, trasalimenti, impasti rochi, bisbigli, bassi ostinati che continuava a innamorarci. Si era commosso anche lui, alla fine. Il gesto delle mani che coprono il viso, il malinconico distacco di un “vi invidio tutti”.
Ma tutto questo fa parte della memoria personale di chi scrive. Non sono queste le immagini con cui ci parla Cominciò che era finita, il volume in cui Luisa Viglietti racconta “gli ultimi anni di Carmelo Bene” . Prendendo a prestito il titolo dalla prima pagina della “autografia d’un ritratto” che apre il volume delle Opere – per dire, con un occhio al protagonista di quel Lorenzaccio che a metà degli anni ottanta apriva un altro momento di straordinaria felicità espressiva, che la rappresentazione è proprio finita, che non c’è più niente da interpretare. Ogni gesto è diventato inutile. La “storia” si può solo continuare a sognarla, riviverla in una funerea veglia alcolica come nello stupendo Romeo e Giulietta di anni prima. C’è invece, nel volume pubblicato dalle Edizioni dell’Asino, tutto quel che sta intorno e dietro quella sera d’estate veronese. Il lavorìo che la precede e l’accompagna.
Luisa Viglietti era stata chiamata per realizzare i costumi di Hamlet suite, a pochi giorni dal debutto dello spettacolo a Verona – costumi che non dovevano essere costumi, naturalmente. Giovane napoletana, dal carattere non facile, anche nei rapporti familiari, par di capire. Quello che ci voleva, in quel momento. La cronaca del suo arrivo nelle stanze immerse nell’oscurità dell’appartamento “nero” all’Aventino sembra confermare tutte le leggende che lo riguardano. Era arrivata sapendo tutto quello che credeva di sapere sull’uomo che l’attendeva e la sua dubbia fama, la sua discutibile inclinazione al comando. Finì che rimase accanto a Carmelo Bene fino all’ultimo momento. Non solo per disegnare i costumi. Per curare reciprocamente le proprie ferite, dice, chi non ne ha infatti. Una manciata di anni, quella sua terza o quarta vita, Carmelo Bene è morto a Roma il 16 marzo 2002. Non pochi, se si guarda a quanto di emozione hanno regalato allo spettatore di quel momento gli eterni ritorni degli eroi d’elezione che Carmelo Bene ha inseguito per tutta la vita. L’Amleto laforghiano che ha preso gusto all’opera, artista per vocazione e destino in fuga dalle strettoie della storia. Il burattino Pinocchio refrattario ai codici del mondo cosiddetto adulto. L’enigmatico Achille che sembra un po’ racchiudere anche gli altri due, nel gioco della maschera guerriera con cui copre la propria indifesa umanità. In-vulnerabilità d’Achilledice il titolo dell’ultima apparizione dell’attore, una “impossibile suite” che rinnovava i motivi dei precedenti incontri. Forse è proprio per questo ritornare sui propri passi che l’ultimo Macbeth horror suite poteva commuovere di più dello spettacolo di dieci anni prima, di cui pure riprendeva le tante invenzioni sulla scena rimasta pressoché immutata. Ormai davvero oltre il teatro, nel suo spudorato mettere in gioco l’agonia dell’attore.
Un Carmelo Bene quotidiano, scrive a ragione Goffredo Fofi nella prefazione. Ma quel che conta è proprio la qualità di questa quotidianità. Vi si ritrova il moto pendolare fra i due rifugi dell’artista, la casa romana e quella affacciata sul mare di Otranto (un castello viene da dire, non si sfugge al richiamo sentimentale di Nostra signora dei Turchi, il film che ci stregò da ragazzi) che per necessario contrasto appare aperta e luminosa, mediterranea. Dove viveva in una volontaria reclusione, senza uscire mai, del resto detestava anche viaggiare, anche la spesa era fatta al telefono, grazie evidentemente a fidati fornitori. Ed erano quantità da grande bouffe, un po’ per soddisfare la passione dei fornelli, un po’ per la generosità (molto meridionale essa pure) verso i pochi amici di cui si circondava. Le giornate che cominciavano all’inizio del pomeriggio e si prolungavano per tutta la notte seguente, il tempo della creazione quando non c’era invece una partita di calcio o un programma televisivo da commentare. Riemergono le mille ossessioni dell’artista, le idiosincrasie ben temperate (celebre l’insofferenza nei confronti dei “gazzettieri”, però “quelli del manifesto sono i più intelligenti” affermava nel monologo a due voci con Umberto Artioli pubblicato anni fa in Un dio assente per le edizioni Medusa, perdonate l’orgoglio di bandiera).
Ma tutta questa vita si raggrumava intorno a un nucleo solidissimo, che materialisticamente potremmo ancora chiamare il mestiere. Come se anche la vita fosse la prosecuzione con altri mezzi di un costante pensare teatrale, per dir così, da intendersi però in un senso molto concreto. Un geniale artigianato, non a caso insofferente al dilagare della superficialità. Arte e vita è diventata equazione tanto abusata da risultare ormai infrequentabile (e lui: quando non si vorrebbe altro che mettere da parte l’arte, come del resto la vita). Ma lì alla fine si deve tornare. Senza perdere di vista quel “tutto nel mondo è burla” che chiude il Falstaff verdiano. Giunti alla fine del libro, al malinconico finale imbevuto di tristi vicende legali, se un consuntivo c’è da trarre è che quella giocata da Carmelo Bene è stata fino all’ultimo una partita fra solitudine e ironia. Se un futuro ci sarà per il teatro, non può che partire da lì.
© Gianni Manzella