La scena ha perso il 26 luglio 2009 Merce Cunnigham, figura di punta della scena del secondo Novecento. Grande innovatore capace di introdurre una visione estetica innovativa nella composizione del movimento, Cunnigham ha legato indissociabilmente la coreografia al suo tempo, contribuendo così a portare la danza nel novero delle arti maggiori. Per la danza, ma anche per la scena nel suo complesso, esiste un prima e un dopo Merce Cunningham.
Il suo ultimo spettacolo, Nearly 90, presentato il 16 aprile 2009 alla Brooklyn Academy of Music di New York, in occasione del suo novantesimo compleanno, contava su un imponente allestimento scenico ideato dall’architetto italiano Benedetta Tagliabue.
Tuttavia, la seconda versione di questo lavoro, Nearly Ninety 2, presentata al Théatre de la Ville a Parigi nella cornice del Festival d’Automne e riproposto in questi giorni a Montréal tra gli eventi del Festival TransAmerique, è una versione più sobria, in cui la scenografia della prima versione viene completamente abbandonata lasciando ampio spazio alla composizione del gesto.
Il palco è completamente vuoto, abitato solo da una scala di tonalità luminose, gialle, blu, rosse, proiettate sul fondo della scena e che si susseguono per l’intera durata dello spettacolo come un quadro cromatico sul quale si staglia la geometria dei corpi in movimento.
Siamo di fronte al pezzo più lungo di Cunningham, al quale ha dedicato eccezionalmente un intero anno di lavoro; una composizione coreografica che conta tredici danzatori in scena. Nearly Ninety 2 è dunque per molti commentatori, il testamento di Cunningham: un testamento concepito come sfida, l’ultima, la più radicale, lanciata alla composizione del movimento.
Fedele a una scrittura in cui l’articolazione del corpo abbandonato la frontalità e la codificazione del gesto, questo lavoro si risolve in un’indagine sullo spazio e sulle sue qualità dinamiche. Uno spazio che, però, non esiste in se stesso, ma è composto, quasi determinato, dal movimento astratto che la geometria del gesto disegna nell’atmosfera, come a inscriversi in essa per consegnare, su questo supporto effimero, le immagini dell’intero lavoro.
I. La geometria dei corpi
Attraverso un gioco di tensione e sospensione del movimento astratto e angolare, Merce Cunningham reintroduce con questo lavoro la nozione di relatività in coreografia, là dove ogni danzatore, con la sua particolare percezione del movimento, diventa il centro di esplorazione dello spazio. Ciò è possibile grazie a un ripensamento radicale delle figure disposte in scena e, dunque, dell’insieme delle dinamiche che esse possono produrre nelle loro interazioni.
Tre diversi tratti distintivi sembrano dunque emergere:, in primo luogo la concezione tridimensionale della composizione del movimento, in cui il corpo è pensato a partire da una visione prismatica, somma di angoli d’osservazione e prospettive diverse , compresa la visione dall’alto.
Questo ha una ripercussione diretta su un secondo, determinante aspetto, che riguarda la qualità del movimento dei danzatori. Ogni movimento è infatti composto liberando le membra dal torso, trovando così un punto di partenza nella colonna vertebrale. Questo permette di articolare un gesto in cui la ritmicità della parte superiore del corpo è scollegata dalla ritmicità della parte inferiore, andando così a aumentare il grado di complessità della figura coreografica e dunque delle dinamiche interne che attraverso il corpo. Riconosciamo qui il vocabolario di Cunningham: piccoli passi che percorrono la scena, i grands pliés e le attitudes con le braccia disposte a cerchio o l’attraversamento diagonale della scena disegnando geometrie come cerchi, intersezioni multiple di linee, o gli arresti scultorei della posa.
Ma Nearly Ninety 2 porta anche il segno di una spinta innovativa, come segno di una creatività inarrestabile e in continua evoluzione.
Ciò prende forma nella composizione di duo e trio attraverso cui lo spettacolo si compone: modalità di scrittura del movimento quasi completamente assenti nelle sue precedenti composizioni. I passi a due, eseguiti molto lentamente, come in sospensione, riscrivono posture e disequilibri dal forte impatto visivo. Questi duo sono sempre eseguiti da un danzatore e da una danzatrice, come a sottolineare le diverse qualità attraverso le quali il movimento è portato dal corpo: si tratta di taglie diverse, sensibilità e pesi diversi. È dalla loro interazione, a livello della figura geometrica tracciata, che emerge la tensione spaziale. I diversi duo fuori sincrono, il leggero intervallo che si interpone tra i corpi, è il segno di questa costante evoluzione, là dove questa sospensione permette al movimento di oltrepassare il corpo ed estendersi al di là da esso.
La scrittura coreografica sembra così esplodere, rinnovarsi di continuo, mai ripetere il tracciato percorso, disegnare sempre nuove geometrie spaziali all’interno delle quali il corpo, attraversato da un uso dei costumi progettati per metterne in evidenza determinate porzioni di corpo, sembra sparire a favore della sola dinamica del movimento.
I duo o i trio diventano allora simili a monadi all’interno dei quali il movimento angolare e spezzato dei singoli corpi si fa flusso, contaminazione; in cui la linea di un movimento sviluppata da un singolo danzatore sembra passare e continuare nel corpo di un altro danzatore, in un flusso inarrestabile di tensioni che si dispongono nel campo magnetico della scena.
La fusione di questi diversi aspetti determina un terzo elemento dettato dalla qualità tutta particolare attraverso la quale i corpi si dispongono nello spazio, nella modalità in cui lo occupano. In altri termini, la concezione geometrica della scena induce, in Nearly Ninety 2, a un costante disegno del territorio d’azione. Ciò significa che la scena non è completamente occupata dal movimento dei danzatori, preferendo così una forma di stanzialità, di ricerca di un territorio determinato, per far evolvere la figura nello spazio. Il vuoto della scena diventa così condizione d’accadimento del gesto.
II. Sonorità che fendono l’aria
Se il tratto centrale del lavoro di Cunningham riguarda una costruzione astratta e geometrica del movimento, dall’altro ritorna, anche in questo lavoro, una seconda caratteristica determinante della sua estetica: il rifiuto, maturato con John Cage, di piegare il movimento alla dimensione sonora. Suono e movimento sono entità indipendenti, monadi a loro volta, che trovano relazione solamente attraverso il loro accostamento in scena. Si tratta qui di comporre un campo magnetico in cui le tensioni geometriche espresse dal movimento dei danzatori possano trovare punti di connessione con la partitura sonora. Nessun contrappunto però, nessun rimando o rinvio lega e mette in relazione le due dimensioni.
Il loro accostamento produce l’evento. Come per reazione chimica.
È sulla base di questo principio che si organizza anche la partitura sonora di Nearly Ninety 2 affidata a John Paul Jones, storico bassista dei Led Zeppelin, e a Takehisa Kusugi, maestro della sperimentazione americana degli anni settanta e esponente Fluxus, oltre che storico collaborato de Cunningham e John Cage.
Siamo qui di fronte a una partitura elettroacustica dove il suono sembra emergere da un tempo indefinito, da un inudibile che ne costituisce la condizione d’esistenza. La partitura, eseguita live da Kosugi e da John King, è a tratti sulfurea, impalpabile ma al contempo estremamente penetrante grazie a una disposizione di altoparlanti che invadono la sala.
In questa architettura sonora, immerso come in un’atmosfera rarefatta, il suono affiora e scompare come un’ombra sulla scena, evapora come la geometria impalpabile del gesto.
Si tratta di una texture sonora fatta di variazioni ritmiche, suoni metallici o al contrario organici che, nella loro indipendenza, costruiscono trame di senso con il movimento geometrico dei danzatori. Pulviscolo sonoro che si fa geometria della pulsazione capace di imprimere il gesto dei danzatori nella percezione dello spettatore.