Provoca un sottile spaesamento lo spettacolo Erpressung che Pippo Delbono ha messo in scena a Monaco, in Baviera, con otto attori del Residenz Theater. Come al precipitare in un mondo parallelo. Tutto sembra al suo posto, al solito posto. Riconosciamo gli elementi costitutivi del teatro di Delbono, perfino certe sue metafore ossessive. La lotta degli interpreti per conquistare il proscenio. Un gruppo di borghesi schierato dietro una tavola apparecchiata. Immagini oniriche che si rincorrono in un montaggio da varietà. Testi che irrompono con la violenza dell’urlo a rompere il possibile equilibrio. Persino la musica di Alexander Balanescu, già protagonista col suo violino del precedente lavoro, Dopo la battaglia. E tuttavia d’un tratto ci si accorge che qualcosa è mutato. Come quando appaiono in cielo due lune a quel personaggio del romanzo di Murakami Haruki, 1Q84.
Qui, al senso di raddoppiamento, si somma la percezione di un’assenza. Ecco, mancano i corpi degli attori su cui Pippo Delbono ha costruito la propria drammaturgia negli ultimi due decenni. Manca Bobò, il piccolo uomo sordomuto e microcefalo che da quindici anni è protagonista e fonte di ispirazione del suo teatro, da quell’indimenticabile Barboni che li mise accanto per la prima volta nei panni di due svagati personaggi beckettiani. E manca lo stesso artefice dalla scena, per la prima volta, e non è cosa da poco: non solo per il peso che ha l’elemento personale in questo teatro, ma perché proprio questa presenza è in qualche modo garanzia della sua autenticità, del suo essere teatro e non rappresentazione.
Naturalmente gli attori del Residenz sono bravissimi, come ci si aspetta da un teatro pubblico tedesco di queste dimensioni. Il grande teatro che domina la Max-Joseph-Platz, ricostruito dopo la guerra, a metà del secolo scorso, è una delle istituzioni rilevanti del Freistaat bavarese, dall’anno scorso guidata da Martin Kusej. Una compagnia stabile di una cinquantina di attori, e non so quanti registi, scenografi, tecnici; cinque dramaturg, figura cardine del teatro tedesco, fra cui Laura Olivi che in questa occasione ha collaborato con Delbono. Per l’artista italiano, che pure ama confrontarsi con il diverso, è stata certo un’esperienza creativa del tutto nuova. Una sorta di esperimento chimico, mettere insieme due sostanze diversissime e vedere che reazione producono. Quella del Residenz, la tradizione della regia novecentesca, sembra quasi prender corpo nella scena di Anneliese Neudecker, due muri convergenti verso il fondo dell’imponente palcoscenico, fra i quali calano una serie di pareti divisorie che progressivamente annullano la profondità.
Erpressung si traduce con la parola ricatto. È uno studio sul ricatto, dice la voce fuori campo del regista nella prima delle numerose incursioni che compie all’interno dello spettacolo, quasi a voler appunto testimoniare una sua indiretta presenza, un suo bisogno di esserci dentro. Ma il termine, il ricatto, va preso in senso ampio. Come d’abitudine, l’ispirazione di partenza si dilata al contatto materiale con la scena, con le vite vissute dei suoi interpreti.
Si comincia con esempi di comportamenti sbagliati che una giovane donna trae da un volume non a caso intitolato Die Frau, mentre la voce di Nina Hagen oscura ogni altro suono. Una cassiera ripete in maniera sempre più frenetica il suo buongiorno, grazie, arrivederci. Un uomo scrive lettere che forse non spedirà a una donna che forse non si è mai accorta di lui. Una coppia litiga per i figli, con minacce di suicidio. Un ufficiale stira le foglie dell’autunno tedesco, per poi gettarsi in un ballo con un suo pari grado. L’uomo più anziano dice della morte di fame della madre, a Kaliningrad nel 1947, e della sua adozione da parte di una famiglia berlinese. Tutti dicono delle proprie paure. E intanto il leitmotif scritto da Balanescu per lo spettacolo ritorna fra un Lied di Schumann o una canzone di Enzo Moscato.
Benvenuti alla grande serata italiana, proclama l’ammiccante entertainer in giacca di lamè dorata col fiore all’occhiello. La terra dell’ammore. E del cibo. Spaghetti vongole pizza margherita gnocchi, e pazienza se la pronuncia è sempre più approssimativa. Romeo e Giulietta. Tutto va bene. La mamma. I luoghi comuni sul nostro paese ci sono tutti (o forse no, manca la mafia). Il pubblico ride, chissà se della parodia dell’italiano convenzionale o di quella dei propri pregiudizi, i Katzelmacher non vanno mai fuori moda dopo tutto. Qui Romeo e Giulietta sono due uomini nudi che si parlano a distanza e se tutto sembra troppo sentimentale si può rimediare con una storiella sugli ebrei. Insomma, si torna continuamente al tema dell’altro, al diverso che può arricchire o far paura. Al rifiuto dell’altro da cui nascono le guerre. All’odio che c’è anche nell’amore.
Non è forse un caso che il momento emotivamente più forte dello spettacolo coincida con l’esplodere del discorso di Saint-Just dalla Morte di Danton di Büchner, urlato da Delbono e doppiato in simultanea da un attore che accompagna l’ingrandirsi del volto del regista, proiettato su quelle pareti che scendono una dopo l’altra a chiudere la scena. Alle parole del rivoluzionario che esalta la forza rigeneratrice di un bagno di sangue (il celebre: che cosa importa morire in una epidemia o in una rivoluzione?) risponderanno le parole di Primo Levi ma anche i versi di Prevert che si amavano da ragazzi, questo amore così violento così fragile così tenero. Ed ecco, da ultimo, arrivare anche Bobò, sia pure nella forma mediata di un video che ce lo mostra in un freddo inverno davanti alle costruzioni di Dachau. Bobò col suo sguardo che guarda lontano. Forse anche lui un po’ spaesato.