Chi potrebbe dire mai che in questa storia il cattivo sono io, dice a un certo punto la protagonista del sorprendente Otello messo in scena da Andrea Baracco con un cast tutto femminile (prodotto dallo Stabile dell’Umbria con il contributo della Fondazione Cucinelli). Non aveva forse messo in guardia il suo comandante? “Guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che si diverte a giocare con il cibo di cui si nutre”.
Non è la prima volta che la protagonista, l’onesto Iago di Federica Fracassi, esce dal testo di Shakespeare per guidare lo sguardo dello spettatore fuori dai meandri più scontati. Se togli a Otello la malvagità di Iago cosa resta? Bisogna dirlo subito. Un Otello “ben fatto”, con tutte le sue cosine che ci sono sempre, sicché quando compare in scena un personaggio si sa già in quale categoria collocarlo, francamente ci sarebbe interessato poco (dopo Carmelo Bene, dopo soprattutto Eimuntas Nekrosius…) L’Otello di Baracco ha un pensiero e poi è anche divertente, cioè capace di trascinare lo spettatore dentro il suo gioco scenico, senza paura di sporcare il teatro di Shakespeare, che per parte sua sapeva benissimo come farlo. Come dovrebbe fare sempre il teatro.
Ecco invece, fin dall’inizio, una sorta di prologo fuori scena per dire che questa storia ci riguarda, laddove parla della necessità di conoscere la verità anche a costo di molto dolore. Tragedia della conoscenza è dunque Otello secondo Baracco, tirando la tragedia elisabettiana quasi in direzione di Sofocle. Conoscenza attraverso il dolore, appunto. Sorprendente è questo Otello non per il cast femminile, che sta tutto dentro la storia del teatro del Novecento e la memoria dello spettatore non farebbe fatica a trovarne importanti esempi, senza bisogno di andare indietro all’Amleto di Sarah Bernhardt. Questa scelta, come la scena di Marta Crisolini Malatesta priva di una possibile localizzazione, nessun cedimento al colore veneziano, può voler dire semmai la volontà di sottolinearne la finzione. Nulla è quello che sembra. A cominciare naturalmente dall’onestà, la parola che ricorre più spesso.
Siamo dunque in una sorta di campiello che è insieme interno e esterno, spesso in ombra, pareti grigie su cui si aprono finestre illuminate e a volte assumono uno sfondo acquoso, due porte ai lati e due sedie da spostare che formano tutto l’arredo. Le interpreti vi irrompono anche dalla platea e non ci vuole molto a credere che quella ragazzona alta e muscolosa in canotta è il Moro di Venezia e Desdemona quell’altra con i capelli corti e i calzettoni infantili, non sarà difficile fare della sua bontà una trappola (sono Ilaria Genatiempo e Cristiana Tramparulo). Ricordate, è tutto falso. Tutte connotate da un abito che le riconosce, la provocante Bianca ha una veste aperta da cui spuntano mutande rosse; solo Iago sfoggia un sobrio tailleur scuro. Insomma, non costumi d’epoca, salvo quello di cui il fool si spoglierà allegramente alla fine in una danza liberatoria.
Insomma, la trama si sviluppa come ci si aspetta, nella traduzione di Letizia Russo. La flotta veneziana fa rotta verso Cipro. C’è una guerra alle porte, la perenne guerra dell’occidente all’oriente che dura da tremila anni. La gelosia è veleno che gorgoglia. Ma il gioco resta stabilmente nelle mani di Federica Fracassi che è brava come si sa e tesse la sua trama con misurato distacco. E brave e giovani sono tutte le altre (sono ancora Valentina Acca, Verdiana Costanzo, Francesca Farcomeni, Federica Fresco e Viola Marietti). A volte si attaccano a un microfono che cala dall’alto e cantano cose un po’ rock come Stay away from me ma anche Tu sì ’na cosa grande pe mme. No, il sentimentalismo no, sbotta Iago. Il fatidico fazzoletto diventa arma mortale che passa di mano in mano. Cala dall’alto anche un letto traballante su cui muore Desdemona. Ma è una morte simbolica, come quella delle altre che alla fine sono di nuovo lì, tutte in piedi immobili. Iago può uscire di scena, la sua funzione maieutica si è esaurita. Non farmi domande, ormai conosci te stesso, ha detto. Cassio governa a Cipro (ma questa è un’altra storia).
© Gianni Manzella