Aveva ben ragione Sergio Leone a mostrarci nel suono del carillon qualcosa di terminale. Come se davvero l’esaurirsi di quel suono dolcemente elementare e della carica meccanica che lo aveva sostenuto portasse con sé la premonizione di un evento fatale. È questa sensazione che ci punge all’uscita della Trilogia degli occhiali, come sinteticamente viene chiamata la nuova creazione di Emma Dante con la sua compagnia Sud Costa Occidentale (al teatro Palladium). Tre lavori dichiaratamente autonomi ma in realtà così strettamente connessi che si fatica a non pensarli insieme. Tre storie che si collocano lungo quella linea di frontiera che da sempre interessa la regista e drammaturga palermitana. Storie di bestie portate al macello, di feste che si mutano in cerimonie funeree, di aggressività e rancori che si nascondono nelle gerarchie dei ruoli e nei rapporti familiari.
Si comincia con il marinaio di Acquasanta, incardinato alla prua di una barchetta che dal proscenio punta dritta sul pubblico della platea. Anzi un mezzo mozzo, ‘o spicchiato, come lo chiamano per via delle lenti. Uomo di fatica che conosce solo la vita della barca, il ponte da pulire e le beffe dei compagni, senza null’altro al mondo che un amore assoluto per il mare. Al quale è letteralmente ancorato con tre cime legate al suo corpo che si protendono verso l’alto e lo rendono un po’ simile a una marionetta. Una comicità immediata, anche gestuale, si fa in effetti veicolo dell’affabulazione con cui l’attore, Carmine Maringola, crea il suo personaggio attingendo alla grande scuola teatrale napoletana e alla sua lingua (l’eco incespicante di un Pietro De Vico, per dire). Si sdoppia nei suoi feroci interlocutori, marinai e capitano della nave, basta un cambio di cappello. Si fa trascinare dalla musica che viene chissà da dove a cantare Maruzzella o Indifferentemente, lasciando che siano le parole delle canzoni a esprimere sentimenti che non sa dire. Ma non c’è da fidarsi di questa immagine accattivante, c’è lì dietro una crudeltà pronta a tornarti su che il seguito della serata non fa che accrescere.
Al passaggio nello spazio reclusorio in cui si muovono le tre figure che popolano Il castello della Zisa, lo stacco può apparire forte, non fosse per quel registro comico che fa collante o da basso continuo di tutta la trilogia. All’inizio anzi sono soltanto due le presenze visibili. Due donne senza età e naturalmente occhialute che pregano inginocchiate in sottoveste e agitano i crocifissi che pendono dall’alto sulle loro teste e si rivestono in un frenetico tramestio di passi all’unisono. Fino a mostrarsi in abiti da suore che non impediscono il loro sommesso ma ininterrotto baccagliare e anche qualche più fisico confronto. L’uomo compare da sotto un telo che lo copriva. Seduto inerte su una seggiolina, inespressivo. Prigioniero delle due donne come loro lo sono di lui; a suo beneficio simulano giochi o fanno girare bambole meccaniche che evocano un passato che esploderà in un urlo.
Ed ecco i due vecchi Ballarini con cui si conclude in crescendo la trilogia. Lui dritto e rigido, mentre procede incontro a lei che si muove ricurva dall’angolo opposto della scena per porgergli la giacca. Arrivati al centro del palco, sotto le luminarie da balera che lei ha acceso, si stringono in un silenzioso passo di ballo che presto si tramuta in un tardivo abbraccio erotico. Con faticosa lentezza evocano passati momenti festosi, l’attesa di un anno nuovo salutato dall’accensione di un petardo, il lancio di una manciata di coriandoli e l’allungarsi di una lingua di gatto. Nel silenzio si odono solo i rumori corporei che mimano una vecchiaia posticcia. Portano infatti vistose maschere, quasi carnevalesche, che danno un che di derisorio a quella loro cerimonia.
Il gioco sembra leggero nella sua facile crudeltà. Ma poi dal baule dei ricordi salta fuori un velo da sposa, mentre inizia la musica con la voce di Mina. Quei passi di ballo trovano ora la loro colonna sonora e mentre li replicano apparentemente identici, si vanno spogliando un poco alla volta degli abiti e della loro senile rigidezza e alla fine anche delle maschere. Da lì sotto spuntano fuori minigonne e corpi giovanili, quelli di Elena Borgogni e Sabino Civilleri, pronti a scatenarsi in altri balli, mentre le canzoni di Tenco e Morandi, di Michele e Rita Pavone rimandano indietro ai primi anni sessanta del secolo scorso. E ballando ballando, è tutta una vita che scorre, o più vite perché alla fine la musica risale ancor più indietro nel tempo, a un’altra generazione, fra i bandoleri stanchi del tango delle capinere e ba ba ba baciami piccina.
E quando alla fine torna quella maschera senile, non pare più così derisoria. Si mette nel baule la giacca che lui indossava, esce da una tasca il carillon che era stato il dono ingenuo di fidanzamento. Ed è l’ora di staccare la spina sulla scena, con un gesto che dà un leggero brivido.