Cominciamo da metà.
Filippo era una visione, con il cesto pieno di frutti pacchetti fiori bottiglie verdure. Biondo bello giovane luminoso reggeva il lungo manico con una grazia naturale, sotto lo sguardo un po’ amoroso e un po’ ironico di Pier. La sera precedente in via Abbadesse c’era stata una festa e il contenuto del cesto rendeva testimonianza dell’abbondanza di cibo e bevande: avevamo deciso di dargli la botta finale nel giardino di casa mia, tanto più che in mattinata era arrivato Gianfranco che Pier voleva incontrare.
(La sera prima: c’erano i giovani scrittori alle prime prove che Pier scovava & curava; c’erano i suoi coetanei e come lui già affermati Del Giudice, Palandri e non so chi altri; c’era la Pivano che Pier coccolava come fosse sua nonna, salvo che alla mia esclamazione: che meraviglioso cammeo! la Nanda lo toccò con un sorriso sognante: Me lo regalò Alice Toklas… C’era fumo, musica, voci via via più alte, il campanello suonava e nuovi arrivati s’aggiungevano. E, in controtendenza, c’erano molti più uomini che donne. Una festa in puro stile Tondelli, gli ospiti buttati su divani e poltrone con l’aria di chi si diverte più del padrone di casa, che s’aggirava con un bicchiere in mano sovrastando letteralmente tutti gli altri, ma con quel fare timido, di ragazzo un po’ goffo capitato lì per caso dalla provincia, che mai l’abbandonava).
Avevo conosciuto Pier Vittorio nei primi Ottanta, durante un raid milanese di Paolo Landi, il più up to date di tutti noi, il più mondano, quel genere di persona che, entrando in una stanza affollata, ne afferra al volo il centro, il focus, individua la personalità di spicco e ne è immediatamente individuato. Insomma, lui era amico di Pier e ce lo fece conoscere. Altri libertini era già deflagrato nella landa della letteratura italiana, non ancora razziata dai cannibali e non più patrimonio delle avanguardie, e le schegge schizzavano in giro ferendo benpensanti e moralisti. Oltre a svelarci la vita segreta dei nostri fratelli minori, a noi trentenni aprì le porte di un altro modo di fare narrativa: ne eravamo affascinati e un po’ intimoriti. Esattamente come mi sentivo io la prima volta che incontrai Pier (forse anch’io scontavo le origini provinciali). Chissà perché andammo a cena in un ristorante egiziano di porta Venezia, sicuramente non per i mirabili affreschi a soggetto egizio sulle pareti verdoline. Fatto sta che abbandonammo il luogo e finimmo in casa di qualcuno – non saprei dire chi. Pier era scontroso, poco propenso alla conversazione, finché il padrone di casa non tirò fuori alcol e majong. Dopo un paio di bicchieri Pier ci introdusse ai misteri dell’arte di giocare a majong nella bassa: saloni pieni di persone di ogni età sedute attorno ai tavoli dove le tessere venivano combinate per tutta la notte (qualche anno dopo ne ebbi esperienza diretta in una trattoria sperduta nella campagna attorno Salsomaggiore che qualche buontempone locale ci aveva raccomandato assicurando che si mangiava benissimo. Finimmo nel retro – la sala era per l’appunto occupata interamente dai giocatori – a mangiare salumi e formaggi, ché la cucina era chiusa).
Un giorno Pier passò a trovare Franco Quadri in Ubulibri, fermandosi nel mio ufficio con la notizia dell’incarico avuto da “Rockstar”. Franco s’impermalosì subito: adesso sei amica di Tondelli? (No Franco, non adesso…).
Sarà stata la cultura degli Ottanta, ma ogni volta che ripenso a Pier Vittorio l’ambientazione è una festa, casalinga o in qualche locale, a Riccione, a Milano, a Rimini. Ho come la sensazione – a posteriori – di aver vissuto weekend postmoderni per anni interi. Da qualche parte del mio disordine cronico ci deve essere una foto scattata da Fulvia Farassino alla festa per il lancio di “mouse to mouse” al Rolling Stone, con la mia testa infilata in una sagoma cartonata di Mickey Mouse… Festeggiammo pure a Riccione, la sera del Premio a Dinner Party, ma a una certa ora lasciai gli amici alle svariate combines sulla spiaggia che avevano messo insieme nel corso della serata.
Altra foto altra festa: quella a sorpresa che Gianfranco preparò per i miei 41 anni (i 40 mi ero rifiutata di festeggiarli e venni “punita” così). Mostra un bel gruppone di amici sulla soglia di casa mia, disposti in ordine di altezza, in primo piano Paolo I. con torta e candeline, dietro Pier con un magnum di Veuve in ogni mano (featuring by Paolo Landi).
Qualche sera in via Abbadesse ci trovavamo in gruppi ristretti, non per scelta, piuttosto per caso. E allora si parlava di letteratura, di cinema e di teatro. No, non erano salotti letterari, poteva succedere che Mauro, rientrando, infilasse un vhs porno nel videoregistratore e l’intellò che era in noi andava a farsi maledire. Una sera Pier s’ingolfò in una lode sperticata del computer per la silenziosità dei suoi tasti, ricordando come una certa vicina di casa di altri tempi e luoghi si lamentasse del ticchettio della macchina per scrivere nel silenzio della notte, il suo tempo della scrittura. Eppure, che parlasse di quello, di majong, di teatro o di musica pop, c’era sempre qualche cosa che mi divertiva, mi interessava, che metteva in evidenza una personalità non comune, un pensiero obliquo figlio del suo tempo eppure disancorato dalla pochezza di quegli anni. E mi piaceva che non vantasse conquiste amorose o avventure di una notte come facevano spesso gli altri miei amici gay. Non era pruderie la mia, neppure la sua, suppongo. Semplicemente c’era un tratto di discrezione che riconoscevo come mio, poiché neppure a me piaceva parlare della mia vita amorosa o sessuale: c’erano e tanto bastava.
Una mattina c’incontrammo per caso in fondo al ticinese e davanti a un caffè in un baraccio della zona Pier mi disse che sarebbe venuto a vivere a Milano. Ne era elettrizzato e spaventato, era un cambiamento significativo, il suo status di scrittore, di scout, gli permetteva/richiedeva il salto – chissà, proviamo – disse, un po’ titubante. Io ero più che convinta che sarebbe stato ottimo per lui, era il giovane scrittore del momento, una promessa letteraria già mantenuta – sebbene le critiche di “romanzo di consumo” che qualcuno aveva rivolto a Rimini lo avessero ferito e fatto incazzare. Il senno di poi smentì la vista corta di quei critici, Rimini non era un romanzo di consumo e nemmeno generazionale, piuttosto il romanzo di un’epoca, quegli anni Ottanta che, declinati alla newyorkese, scatenavano lodi sperticate degli stessi critici, incapaci di scovare le stesse pulsioni e lo stesso malessere, la stessa sfrenatezza e noia sulle rive dell’Adriatico. Pier a Milano voleva dire opportunità di frequentarlo più facilmente. Del resto, mi era piaciuta la dedica che aveva scritto sulla mia copia di Rimini: A Silvia mia “nuova” amica che spero di conoscere meglio. 5 luglio 1985, ovvero la sera della festa al Grand Hotel. Trovavo bellissimo che una frequentazione saltuaria di un paio d’anni potesse essere significativa per lui come già era per me. L’ho già detto, quel ragazzone mi andava a genio, mi piaceva che i suoi pensieri non fossero mai disgiunti dai moti del cuore, nella vita come nella scrittura; c’era sempre un tremore nascosto, una fragilità in agguato anche dietro comportamenti e dentro personaggi di tutt’altro segno.
Un episodio che mi impressionò del lavoro di Pier fu la storia di Viaggio a Grasse. Ne avevamo parlato, all’epoca ero fanatica di Prokosch, l’avevo scoperto con Gli asiatici e leggevo tutto ciò che Adelphi andava pubblicando, ammaliata dalla capacità dello scrittore di raccontare per verosimiglianza. Mi sembrò una coincidenza formidabile che, invece di un’intervista, Pier Vittorio si trovasse a scrivere pure lui per verosimiglianza, per induzione. Il racconto mi sembra una bellissima prova letteraria, come mai avrebbe potuto esserlo un’intervista e già la storia di per sé era “letteraria”. Queste argomentazioni, però, non placavano il suo rammarico, il senso di ineluttabilità del destino dispettoso.
(L’ultima cena. Sandro Lombardi era mio ospite durante le repliche di uno spettacolo e la sera di riposo mi propose di organizzare una cenetta con Pier Vittorio: avrebbe pensato lui a sushi e insalatina, io non dovevo preoccuparmi di nulla. Pier non ne voleva sapere, disse che era influenzato, che non aveva voglia di mangiare, né di uscire di casa. Sandro insistette fino allo sfinimento e lui acconsentì a patto di dettare il menù: minestrina. Fu una serata strana, io rientrai dal giornale dopo le nove e li trovai seduti al tavolo di cucina, circolava poca allegria, Pier era visibilmente sofferente e se ne andò presto. Fu l’ultima volta che lo vidi).
La mattina del 16 dicembre 1991 la telefonata di Paolo Landi mi raggiunse in redazione. Piansi e lui con me, poi mi chiese di controllare che non si scrivesse la parola proibita e mortale Aids. Andai dal mio caporedattore che decise di attribuire il pezzo letterario a Silvio Perrella. Scelta ottima, ma io chiesi di scrivere anche un pezzo sul personaggio e sulla persona che avevo conosciuto, a cui avevo voluto bene. Quel giorno, però, la pagina culturale era occupata per intero dal pezzo su Maus di Art Spiegelman di una famosa e pretenziosissima giornalista. Niente da eccepire, ma poteva uscire pure il giorno dopo. Saltai il caporedattore e andai dal direttore; piangevo, imploravo, straparlavo. Ricky Levi capì, o forse fece la scelta migliore per togliersi dai piedi quella lagna: dimezzò il pezzo su Spiegelman, io e Perrella ci dividemmo un taglio basso. Quando già la pagina era chiusa venni chiamata dal vicedirettore che avendo letto le agenzie mi chiedeva conto della causa della morte. Negai, mantenni il punto, consapevole di far prendere un buco al mio stesso giornale e con la mia firma.