Una rabbiosa denuncia della patologia del potere. Un anarchico e paradossale sberleffo nei confronti di ogni sua deformazione. Fu alla Biennale di Venezia, un paio d’anni fa, che Angélica Liddell fece irruzione rumorosa, se pur tardiva, anche sulle scene italiane. Lo spettacolo si chiamava El año de Ricardo, e il Riccardo del titolo era chiaramente quello mostruoso di Shakespeare, ricreato in un delirante monologo. Fra un sorso di birra e il soddisfacimento di elementari funzioni fisiologiche, saltando e cantando e ballando davanti a un letto sfatto e un cinghiale impagliato, l’artista catalana (di Figueres, quasi ai confini con la Francia, la città natale di Salvador Dali) nulla risparmiava ai luoghi comuni anche progressisti. Da allora è proseguita in maniera quasi lineare la conoscenza carnale del teatro di Angélica Liddell. E l’aggettivo non deve sembrare improprio giacché, come pochi altri, il suo lavoro appare intriso di umori corporei, di una fisicità che a tratti diventa esplosiva, buttata senza vergogna in faccia allo spettatore. Ho un motore di ribellione contro l’autorità, ha detto una volta di sé. Ma la sua ribellione serve poi da innesco a un viaggio verso zone molto più intime. Spesso dolorose.
Performer e autrice nel senso più completo dei suoi spettacoli, come l’Alice del reverendo Lewis Carroll da cui ha tratto il nome d’arte Liddell precipita ogni volta al di là di uno specchio, in un mondo sotterraneo popolato da figure ai confini del sogno o dell’incubo ma che proprio quella fisicità porta sul piano della vita. Che tutto questo la qualifichi come trasgressiva o magari giustifichi impropri accostamenti con un artista considerato altrettanto scandaloso qual è l’acquisito conterraneo Rodrigo Garcia, fa parte di una lettura pigra e superficiale. Siamo, è chiaro, dalle parti di un’arte che crea un proprio mondo di cui ignora ancora le regole e forse la stessa esistenza, indifferente al problema della rappresentazione – e che richiede dunque un ascolto diverso da quello che serve per riconoscere ciò che è familiare.
La mitologia dell’artista racconta che vive in un piccolo appartamento di Madrid, dove lavora di solito per terra. Può stare giorni senza dire una parola e comunica di preferenza in forma scritta. Cammina anche parecchie ore ogni giorno, ma sempre lungo percorsi prestabiliti. Si dichiara misogina, conseguenza dell’odio nutrito nei confronti della madre che da bambina non la considerava del tutto normale ed era arrivata a farla visitare da uno psichiatra. Infanzia difficile, vissuta fra suore e soldati, il padre era un militare di carriera (ed erano ancora gli anni del franchismo, gli ultimi, vale la pena ricordare). Già allora leggeva moltissimo, anche di nascosto – mi piace la letteratura che non ha ucciso Dio, dichiara. Del suo carattere malinconico è testimone anche il nome che ha dato alla compagnia che ha fondato insieme a Sindo Puche, Atra Bilis, ovvero la bile nera, uno dei quattro umori che la medicina di Ippocrate poneva a fondamento della natura umana.
In realtà fuori dal palcoscenico è una giovane donna minuta e dai gesti misurati, dietro lo sguardo ironico, sembra ancora una ragazza. Ma è sulla scena che Angélica Liddell si trasforma, quasi che davvero fosse quello il luogo preposto a tenere sotto controllo (estetico) le manifestazioni della propria psicopatologia. Una sorta di personale manicomio. Dove misurare il potere della follia teatrale, per usare altrimenti una formula di Jan Fabre. Lavorare sul palco è un piccolo suicidio, dice ancora. E infatti all’interno del più vasto orizzonte tematico della morte che circoscrive il suo teatro (ma bisognerebbe forse dire tutto il teatro, fin dalle origini) il tema del suicidio ricorre con non casuale frequenza, anche se coniugato in forma beffarda come ne La falsa suicida, dove una Ophelia da peep-show condivide lo spazio con uno Horacio storpio e torturatore di bambole di pezza. Nemmeno i nomi scespiriani sono casuali. Eros e morte, non se ne sfugge.
Prima lettera di San Paolo ai Corinzi. Cantata BWV 4, Christ lag in Todesbanden. Oh, Charles!, come suona il titolo per intero, è il terzo tratto del Ciclo delle Resurrezioni. Forse anche quello che lo conclude (se vale la scansione ternaria sperimentata negli Actos de resistencia contra la muerte e nella più recente Trilogía China). Il tema dichiarato del ciclo è il ritorno alla vita dei morti. Ma è inutile cercare una chiave unificante, da un punto di vista drammaturgico. Le tre creazioni si presentano molto diverse l’una dall’altra. La prima, You are my destiny, trae origine da Lo stupro di Lucrezia, il poemetto di Shakespeare che riprende la vicenda dell’ultimo re di Roma, la violenza commessa sulla più casta delle dame romane che per questo sceglie di uccidersi – all’interno della scrittura scenica compaiono però anche Tito Livio e la Lucrezia di Händel. Ma soprattutto c’è lei, l’artefice, che la proietta in una Venezia magica e dagli umori vagamente malsani, ai confini con l’oriente, sarà anche l’iconografia che sembra uscire da un film di Paradzanov o la suggestione degli interventi vocali di tre cantori ucraini che appaiono su una balconata a spezzare il ritmo dell’azione, quando potrebbe andare fuori giri. Per niente impacciata da una gonna che si allarga su un’intelaiatura di cerchi concentrici, corre per la scena e si abbandona al suolo, semina grappoli d’uva e compare con una vanga in mano da offrire al suo Tarquinio perché le scavi una fossa che arrivi dall’altra parte del mondo, giacché “l’amore è una gara di becchini”.
C’è un’aria di casualità in quel che avviene sulla scena, una sorta di provvisorietà che impedisce di dar troppo credito a quelle figure in monacali abiti neri, a quella tammuriata collettiva protratta fino allo sfinimento, a quegli ossessivi rintocchi di campane, come per deviare l’attenzione da una violenza che non è mera esibizione; che non deve colpire lo stomaco ma entrare dentro più a fondo. Mentre invece è rigorosa la precisione dei tempi e dei gesti con cui Liddell guida i suoi compagni, un cenno della mano e tutti si arrestano. Nel montaggio si alternano i pieni e i vuoti (c’è uno straordinario momento in cui tutto sembra fermarsi, in silenzio), la leggerezza e la pesantezza, un coro di bambini e la violenza di gruppo sperimentata dalla donna che a lungo era rimasta immobile di fronte a quegli uomini instabili e insofferenti. Lei invece, Angélica Liddell, ormai si è spogliata dell’ingombrante abito di scena, è rimasta con una leggera veste nera e può scatenare la sua danza selvaggia fra gli spruzzi delle bottiglie di birra aperte l’una dopo l’altra. You are my destiniy, canta finalmente Paul Anka.
Di fronte alla complessità drammaturgica di You are my destiny, lo spettacolo successivo del ciclo, Tandy, può sembrare quasi un pezzo di teatro da camera. Quanto quello è dilatato nello spazio e nel tempo, tanto questo assai più breve spettacolo sembra concentrato attorno al suo nucleo, ed è ancora una vicenda di patologia come destino, che prende le mossa da un racconto di Sherwood Anderson, Winesburg, Ohio. Il racconto è però solo un antefatto o un prologo, risolto in un’immagine che si scioglie in un lento rituale. Un uomo disteso in mezzo alle bottiglie vuote che altri uomini hanno disposto intorno a lui e colmato poi di fiori. È venuto in campagna per smettere di bere ma non ce l’ha fatta. Vede in una bambina l’amore che non potrà più avere. La chiama Tandy, le impone di avere il coraggio di rischiare di essere amata. Una candela che brucia illumina i residui di qualcosa è già successo sulla scena, su cui incombe sul fondo in grandi caratteri luminosi la scritta “There will be miracles”. Ma forse anche questo è solo un sogno, il sogno di una donna già matura che alla bambina di allora offre un’altra determinazione: farò l’attrice. Un destino appunto, autoinflitto.
La patologia ha anche un lontano nome scientifico, sindrome di Clerambault; vuol dire l’ossessione di essere amata spinta fino a creare un altro illusorio accanto a sé. Spunta anche una fotografia di donne in un manicomio dell’Ohio, 1945. Ma tutto è velato, in questo rito che aspira a una resurrezione. Qui violenza non ce n’è, neppure come metafora, c’è una sorta di diffusa malinconia, anche la nudità che cerca di liberarsi in un movimento scomposto finisce sotto un velo, come il cane fisso a un lato della ribalta, un po’ inutile. E il Lamento della Ninfa di Monteverdi cantato da un ensemble vocale aggiunge un tocco di barocco al finale sospeso sull’orlo di un precipizio penitenziale.
Prima lettera di San Paolo ai Corinzi appare allo stesso tempo più lineare nella costruzione drammaturgica e più enigmatica nei suoi esiti. La scrittura scenica è basata su tre “lettere” che vanno di seguito l’una all’altra (l’ultima è quella del titolo), incastonate fra due azioni che non hanno bisogno di parole, se non per l’irrompere nel finale dell’inno pasquale di Lutero su cui si distende la Cantata BWV 4 di Bach, Christ lag in Todesbanden. Vedremo entrare e uscire un uomo nudo che poi si sottoporrà a un prelievo di sangue, e questo gocciolerà da una flebo su telo steso a terra fino a comporre un’immagine simile a una sindone. E cinque Maddalene con il capo rasato, recanti in scena ciascuna il cranio di un cervo, che poi vedremo cadere in estasi. E soprattutto lei, l’artefice, che salta e cade e pare svenire, trae fuori un fazzoletto, solleva e abbraccia un’asse di legno della sua altezza. Altre assi cadranno poi rumorosamente dall’alto. Ma si capisce che tutto converge verso quelle tre lettere.
“La fede è come amare qualcuno che è lì fuori, nella nebbia, e non si rivela mai per quanto forte lo si chiami”, dice la prima lettera. La scrive Marta a Tomas, il pastore protestante che ha perso la fede, protagonista di Luci d’inverno. Del film di Bergman si ascolta il sonoro originale, in una sorta di sospensione dell’azione. Al “silenzio di Dio” sembra rispondere la più appassionata “lettera della Regina del Calvario al Grande amante” scritta e detta dalla stessa Liddell, sola al centro della scena in un fastoso abito rosso che sembra un prolungamento del manto che copre la scena scendendo dai panneggi che fanno da quinta. E la partecipazione emotiva diventa immediatamente più intensa. La performer cede al pianto, in qualche momento arriva all’urlo, si arresta per fumare una sigaretta. Siamo sulla soglia della lettera di Paolo ai Corinzi, che nella visione di Angélica Liddell contiene una delle più appassionate difese dell’amore che siano mai state concepite. E su cui l’artista costruisce la propria eresia, trapiantare il fervore del sacro nel territorio dell’amore profano, dice. Non a caso si evoca Charles Manson quale immagine del male (è lui quel Charles che completa il lungo titolo), giacché non può esistere amore senza il suo contrario.
Alla fine di questo periplo ciò che allo spettatore pare di poter dire è che Prima lettera di San Paolo ai Corinzi illumina anche i primi due tratti del ciclo. Come fossero tutti frammenti di un unico discorso amoroso, che ricomposti fanno brillare (come una mina) il carattere sovversivo del rapporto d’amore. Come nei tre sogni della Rosaura del Calderón pasoliniano, la protagonista si risveglia dapprima come vittima di uno stupro che ha generato un ambiguo legame con chi le ha fatto violenza; poi come portatrice sana di un destino che l’incontro infantile con un uomo innamorato le ha assegnato; da ultimo come donna in amore, ed è forse la sua reale condizione, costretta a fare i conti col peso di quel sentimento. Sul fondo occhieggia la Venere di Urbino di Tiziano, scontornata dal proprio contesto. Non si consuma facilmente il teatro di Angélica Liddell. Non lascia facili vie di fuga o conclusioni consolatorie. Ma è capace di offrire una forza critica e liberatoria allo spettatore che, privato di regole rassicuranti, accetti di prendere parte alla sua creazione di senso.
Pubblicato in “I Quaderni del Teatro Olimpico”, n. 36
Una nota sullo spettacolo visto a Vicenza
Le porte di Tebe sono chiuse. Non si vedono più le strade che da lì si inerpicano nell’illusoria prospettiva della scena disegnata da Vincenzo Scamozzi. Un rosso panneggio copre per intero il proscenio e scende verso l’orchestra, occupata per intero dall’immagine scontornata della Venere di Urbino di Tiziano. Sul palco sono distese sei travi di legno, precipitate chissà come e quando, senza un ordine qualsiasi. Forse erano servite a fare tre croci, di nuovo attuale strumento di supplizio. Nel mettere mano allo spettacolo per adattarlo all’immodificabile spazio del Teatro Olimpico, Angélica Liddell ha operato una sorta di ribaltamento delle coordinate spaziali. Ciò che era avvolgente verticalità ora giace ai piedi della scena, sotto i piedi degli interpreti. Per dire che lo spazio in cui ci si muove non è innocente.
Prima lettera di San Paolo ai Corinzi si annuncia con il suono di un corno da caccia, come a indicare così una continuità con i primi due tratti del “ciclo delle resurrezioni”. Ma si stenta a ritrovarvi la ricchezza visiva con i lavori che precedono questa nuova prova. Nel silenzio che domina la scena è entrata una giovane donna, forse un’adolescente dalla veste candida e una cuffietta in testa. Compie piccoli gesti, seduta a terra dispone davanti a sé piccole cose. Non si scompone davanti all’uomo dal corpo nudo coperto da un velo d’oro comparso con una valigetta da cui ha cavato un calice liturgico. I lunghi capelli e la barba dell’uomo rimandano certo a un’iconografia cristiana ma l’immagine pure così simile a quella di Charles Manson, che già era apparsa per un attimo all’inizio dello spettacolo, rende più ambigua l’identificazione. E del resto anche il richiamo al più nobile metallo è forse simbolo solare della divinità ma non cela i suoi richiami esoterici.
Un lungo scoppio di musica, a rompere per un momento il silenzio. Poi tutto cambia, quando entra in scena Liddell con un lungo abito rosso che sembra volersi confondere con il manto scarlatto che la circonda. Quasi immobile, le mani cacciate in tasca, prende a dire la lunga lettera che ha scritto al “grande amante”. Le necessità di preservare un teatro unico nel suo genere (qui il fumo sul palco è proibito!) hanno imposto la soppressione della prima lettera, quella sul “silenzio di Dio” tratta dal film Luci d’inverno di Bergman, che apriva la versione che ha debuttato a Losanna. E ciò che forse si perde in termini di senso viene ampiamente riguadagnato dall’esplodere immediato, senza mediazioni, della presenza artaudiana della performer. Quel che rende unica l’artista catalana nel panorama attuale della scena teatrale.
Quel porsi apparentemente dimesso è subito contraddetto dal flusso della parola. Dice di un senso di oltraggio che l’accompagna, del desiderio di arrivare a Dio attraverso l’amato, di un amore che nega il legame col mondo. Un crescendo. Urla: non sono buona, come suonava il titolo di un suo lavoro di qualche anno fa. Si prende a schiaffi sulla bocca. Si sposta per dire che se non avessi l’amore non sarei nulla. Se amassi quelli che amano che merito avrei. Sono parole della prima lettera di Paolo ai Corinzi. A tratti si ascolta la cantata di Bach, e sono ancora parole che dicono della guerra fra la vita e la morte. È inevitabile ricordare Il regno di Emmanuel Carrère, letto di recente. Ma inevitabilmente si verifica anche quanto la prospettiva di Liddell sia lontana da quella dello scrittore francese (che semmai richiama singolarmente l’Odissea di Emma Dante, laddove assume l’episodio di Ulisse e Calipso, cioè la scelta da parte dell’eroe omerico della pur imperfetta condizione umana, come parola definitiva della saggezza contro la vita eterna promessa a lui dalla ninfa e da Paolo ai convertiti alla nuova religione). Nella sfida fra la ragione e il sacro non c’è dubbio da che parte si collochi Liddell.
Quando cessa la parola e le immagini riprendono peso sul palco, qualcosa si è precisato nel corpo dello spettacolo. Una figura ha preso consistenza. È Maria Maddalena, la prima persona a cui appare il Cristo dopo la resurrezione. Colei a cui sono rivolte le sue prime partole. Noli me tangere, non mi toccare. Come in un puzzle o in un noir le singole tessere trovano il loro posto. Così quel penitenziale radersi la testa, evocato dalle parole, trova ora una concretezza fisica. E si moltiplica nell’immagine delle cinque Maddalene rasate che entrano in scena portando un teschio animale e si dispongono poi sulle assi crollate delle croci. Ma non si può poi non notare quanto richiamino anche le ragazze della “Manson family”, sicché la cercata connotazione religiosa rimanda anche a un falso profeta, cui è rivolto il gesto di sottomissione con cui si chiude lo spettacolo. Resta come viatico la carcassa appesa di un cane. Nella penombra sono riapparse le strade di Tebe.
© gianni manzella