L’eterno si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. E l’Eterno disse: “Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti”. Così dicono le parole del Genesi. Ma queste parole non le udremo nel corso della nuova creazione di Angelica Liddell che ha aperto la sezione internazionale del Napoli teatro festival. Genesi 6, 6-7, appunto. Ci sono invece in apertura, stampate in grandi caratteri sullo schermo che è sceso a coprire l’intera parete di fondo del teatro Politeama, le parole di Ezechiele che dicono di una valle che era piena di ossa e di un soffio divino che fa crescere su di esse nuova carne. E sembrano rispondere con empito visionario a quelle cancellate, rimaste nel titolo come a testimoniare della prima ispirazione dello spettacolo.
Forse mai come in questa occasione il centro del lavoro dell’artista catalana è apparso così sfuggente, pronto a moltiplicarsi in un gioco di specchi. Eppure offerto alla comprensione, almeno nel suo livello più superficiale, con tanti elementi per decifrarlo lasciati ben in vista. (E sappiamo però quanto il voler comprendere tutto uccida il senso stesso del teatro). C’è l’orizzonte dell’ebraismo che si ripresenta a ogni passo, anche nella forma della sommessa parodia, cioè del marciare a lato dell’altrimenti indicibile. E sembra contenere tutto. In esso si cala ora la tensione religiosa di Angelica Liddell, che vuol dire il posizionamento dell’artista nella sfida fra la ragione e il sacro – parodia serissima dunque, anche quando si misura con lo scandalo come avveniva nella Prima lettera di San Paolo ai Corinzi vista a Vicenza.
Ecco un lungo filmato che riprende in primissimo piano un intervento di circoncisione. E il rabbino con lo scialle da preghiera, le cui frange rituali vengono tese e fissate a suolo. E l’ebreo hassid con il prescritto cappello cilindrico di pelliccia. Per finire con una cabalistica numerologia che porta al simbolo matematico dell’infinito, richiamando il titolo dato alla trilogia in cui s’innesta Genesi 6, 6-7, i due primi tratti erano stati realizzati a Ginevra e Avignone negli anni scorsi. E in cima a tutto, quel libro che passa da una mano all’altra e non può che essere il Libro. Giacché in principio era la parola. E adesso chissà cosa resta. Come faremo quando la bellezza non potrà più sostenere la nostra vita? – è la domanda che aleggia a un certo punto.
Ma a voler andar dietro alle simbologie c’è forte il rischio di perdersi. Cioè di perdere di vista l’insieme, che ci appare invece come un grande polittico. Se dovessi racchiudere in una sola immagine questo spettacolo severo e giocoso com’è in fondo Liddell, spogliata dei cliché che le si attaccano addosso, mi viene in mente il grande trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio di Hieronymus Bosch che sta a Lisbona, al Museu de arte antiga. Come davanti a quelle tavole, bisogna lasciare che lo sguardo percorra lo spazio, soffermandosi via via sui gruppi che si formano, sulle immagini più oniriche e deliranti, sulle scene che reclamano una sorta di autonomia dal quadro. A cominciare dallo spazio dove tutto avviene, una specie di laboratorio alchemico dove però la macchina che sferraglia su un tavolo è un’impastatrice e la materia coinvolta nella trasmutazione non è oro ma farina.
Ecco allora l’illusorio futuro anteriore evocato da una coppia di ritornanti (da un lontano passato o da un’altra galassia, chissà), nudi e rossi di pelle e con i tefillin, le scatolette con i brani della Torah allacciate alla fronte e al braccio, impegnati in un dialogo filosofico su spirito e materia – a confronto del tempo quotidiano di un bambino con la maschera da Guerre stellari, tanto per insinuare che di un immaginario cinematografico si tratta. O le gemelle bionde a cui lasciano il posto e che saltano e danzano facendo ruotare delle chitarre elettriche, vestite con un mantello che non nasconde un’avanzata gravidanza ma quando si solleva appare per un momento il ventre aperto a mostrare il feto come in certi modelli anatomici di secoli passati. O il fucile kalashnikov che pure riappare in più mani, dal bambino alle due bionde che intanto si sono spogliate dell’abito e danzano insieme all’ebreo ortodosso una danza di gesti lenti e sinuosi, fuori sincrono col ritmo del vecchio 45 giri che canta: ma che freddo fa, versione Nada Malanima. O ancora il precipitare dall’alto del corpo appeso di un cavallo a otto zampe. La sposa velata. Un uomo privo dell’avambraccio. E quel mettere le mani in pasta, quel tirarne una sfoglia o disseminare grani su cui l’artefice in veste penitenziale avanza a piedi scalzi. E parafrasando Cechov, se sulla scena compare un sacco di farina prima o poi qualcuno finirà infarinato.
Per finire dove forse Angelica Liddell ci voleva portare, con il Messia di Haendel a introdurre il monologo dell’artefice sola di fronte alla platea a rinnovare il mito della madre assassina che da Medea arriva fino alle cronache dei nostri giorni. Ma assassina dei figli che non ha avuto. Ora tutto si è spento attorno a lei. Attorno alla sua presenza, bisognerebbe dire. Così unica nella scena contemporanea. E nuove parole prorompono in un flusso a rimettere insieme i frammenti del quadro, violente e angosciate. Come di fronte al dipinto del maestro olandese, anche Genesi 6, 6-7 chiede di girarci attorno, di non fermarsi lì davanti, per andare invece a vedere cosa sta dall’altra parte, sul retro grigio di quelle ante che chiudendosi impongono allo sguardo una diversa realtà.