Go Down, Moses è il nuovo solco iconografico che Romeo Castellucci incide nella tradizione biblica. Il Mosé di Castellucci, presentato in occasione del Portrait che il Festival d’Automne dedica all’artefice della Societas, era stato preannunciato come un lavoro nell’interdizione alla visione ed è proprio nella convocazione di un’assenza, quella dell’enfant Mosé, che il racconto biblico si frantuma. Noi, immensa folla di spettatori, siamo accolti nella sala del Théâtre de la Ville mentre si sta svolgendo una lenta e ripetitiva camminata di figuranti in abiti contemporanei che si raccolgono attorno al celebre “Leprotto” cinquecentesco di Albrecht Dürer. Poi cala il buio.
Lentamente un grande rullo meccanico viene offerto al nostro sguardo, mentre la temperatura sonora cresce fino a divenire assordante. Una testa femminile dai lunghi capelli scuri è appesa a un filo che lentamente scende. Il volto della donna viene travolto e distrutto dal movimento vorticoso del rullo, mentre la nostra cassa toracica vibra insieme ai bassi elettronici dell’ingranaggio. Di colpo siamo in una toilette pubblica, abitata da una giovane donna. Si contorce premendo le mani sul grembo, si accascia contro la porta, il sangue inizia a scorrerle lungo le cosce fino a imbrattare tutto il pavimento. Il Mosè biblico estratto dalle acque e salvato dalla figlia del faraone è portato in scena dalla rottura delle acque di una giovane donna incinta, che abortisce.
Go Down, Moses è una discesa nel grembo materno. Il piccolo Mosè non vedrà mai la luce del palcoscenico, se non per brevi istanti, nascosto in un sacchetto nero all’interno di un cassonetto, da cui provengono le grida di un neonato. Il dramma dell’abbandono – prima ancora che la salvazione dalla schiavitù, quella del popolo di Israele dell’Esodo e quella afroamericana delle novelle di Faulkner, cui Castellucci guarda e che convoca in scena per un breve istante sulle note di Louis Armstrong – sta al centro. Ed è nell’atto di un aborto che si inscrive la rappresentazione. La discesa di Mosè è un’indagine sulla violenza di una figura materna che interdice la vita.
Mosè è in tutti noi, esuli di un Egitto contemporaneo, esuli dal nostro stesso essere, vittime di un infanticidio, di una malattia. È l’uomo che nell’Esodo è “impacciato di bocca e di lingua” di fronte al faraone e alle difficoltà del viaggio. E allora Castellucci gli impedisce di venire alla luce. La postura sulla figura di Mosè viene mediata, allora, tramite la figura della madre, che è delineata come una assassina che si rifugia nel delirio dell’atto di salvazione, di fronte all’interrogatorio di tre poliziotti e di una psicologa. L’incomunicabilità, il non-detto, la lentezza nell’atto di comunicazione che non si compie, tutti questi elementi stanno al centro di un tableau vivant iperrealista, che Castellucci prefigura come una stazione di polizia. Bisogna attendere molto tempo prima che la giovane donna dia ascolto all’invocazione della polizia, e lo fa in primis dando ascolto al delirio di cui è portatrice: questa volta, ella cerca il sangue tra le sue gambe per poi cospargersi il viso.
La donna viene allora introdotta in uno scanner medico per imaging a risonanza magnetica, una tecnologia medica che produce immagini scansionate dall’interno corporeo, in particolare per quanto riguarda i tessuti molli. Cervello e grembo, ovvero le fonti corporee del delirio dell’aborto, dell’abbandono. Il teatro è, allora, il luogo delle visioni della madre, dal suo interno corporeo. Queste visioni, prodotte dalla diagnosi medica, sono tradotte da Castellucci in una immensa caverna preistorica, abitata da uomini primitivi nell’atto di seppellire un neonato, cui segue un atto di riproduzione. Il disegno del suono instilla mano a mano un elemento di disturbo nell’idillio visivo primordiale e il soundscape diviene dunque, prima ancora dell’immagine, elemento di giustapposizione dei frammenti visivi concepiti da Castellucci. A fianco della figura della madre sta infatti l’idea di un Mosè abitato dall’itinerario, che si declina in un montaggio di visioni.
Ecco allora una donna primitiva nell’atto di disegnare le prime impronte umane, che d’un tratto invade il nostro spazio, separato – come durante tutta la durata dello spettacolo – da un sottile tulle che attutisce la visione: di colpo, ella si scaglia contro la parete, e a ogni battito la vibrazione amplificata del tulle provoca un suono basso e potente. S.O.S.: è l’invocazione di aiuto, l’invocazione di Mosè. “Non ti farai idolo, né immagine alcuna di quanto è quassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”. L’irrappresentabile è un gesto che dalle acque del grembo materno risale alla caverna cerebrale della madre. Ella esce dall’apparecchio medico, che ritorna in scena proprio in coincidenza con la bocca della caverna. E ritorna anche il rullo meccanico che macinava la testa della giovane donna, madre passiva che rinuncia alla vita.