L’anno scorso Sasha Waltz aveva riproposto a Romaeuropa quel suo lontano Travelogue – Twenty to Eight con cui l’avevamo conosciuta parecchi anni fa, ancora carico dell’energia giovanile e dell’immediatezza accattivante con cui metteva a soqquadro l’universo angusto di un interno domestico punteggiato da inevitabili nevrosi e struggimenti. Ora ritorna, la coreografa di Karlsruhe, con uno spettacolo più recente, Continu, che riflette ovviamente una raggiunta maturità e la molteplicità di esperienze attraversate ma che singolarmente sembra collegarsi piuttosto ai suoi anni di formazione, fra Amsterdam e New York, nel richiamo eclettico alla modern dance americana o alla postmodernità. Come se, ormai sulla soglia dei cinquant’anni, Waltz volesse misurarne la permanenza nel presente.
La dimensione internazionale assunta dal suo teatro, passato anche per una fugace ma assai produttiva condirezione della Schaubühne berlinese (qui è nata a cavallo del secolo l’emozionale trilogia dedicata al corpo cui dava inizio un folgorante quanto paradigmatico Körper), le ha offerto la possibilità di lavorare in grandi spazi e con più grandi compagnie – anche qui, in Continu, i danzatori sono più di una ventina. Con tutto quel che ciò vuol dire tanto per la concezione coreografica quanto per il rapporto che si stabilisce con il pubblico, rispetto alle dimensioni “da camera” dei primi lavori; aumenta infatti la dimensione corale dei movimenti mentre in parallelo sbiadisce quella narrativa, non più sostenuta dalla presenza di veri e propri personaggi resa possibile da uno spazio creativo più raccolto. Eccoci infatti davanti al vasto palcoscenico dell’Auditorium Conciliazione, rivestito su tre lati da uniformi pareti nere che già danno il clima dello spettacolo.
Continu è articolato in tre movimenti, se si vuole usare un termine musicale che ben gli si addice, di diversa lunghezza e complessità. Il primo, il più breve, sembra fissare il tema che quelli successivi riprenderanno con più elaborate variazioni, cioè determinare un codice gestuale. Movimenti che a partire dalle spalle impegnano soprattutto le baccia, ampie rotazioni, silenziosi ancheggiamenti. Sei danzatrici si muovono seguendo il ritmo fissato da un brano di Jannis Xenakis, un solo per percussioni con accenni quasi orientali eseguito dal vivo da una percussionista che sta con i suoi ingombranti strumenti su un lato della scena. Vestono tutte una tunica nera che lascia scoperte le spalle e fa velo alle individualità. A emergere sono invece i rapporti reciproci che si intessono, il continuo scomparsi e ricomporsi di una coralità negata che solo nel finale troverà una figurativa espressione nel gesto che le unisce su un’unica linea, ciascuna con le braccia spalancate distese sulle spalle di chi gli è vicina.
Scomparse le percussioni dalla scena, ora del tutto vuota, sono principalmente le musiche di Edgar Varèse a condurre la parte centrale dello spettacolo, rendendo significativi i momenti di silenzio che vi si innestano. La più elaborata e confusa, anche, nel moltiplicarsi degli interpreti. Mentre si diversificano un po’ anche i costumi, pur dentro una medesima tonalità scura, quasi mimetica. Qui entra in gioco l’intero numeroso gruppo e subito si innesca una dialettica fra la questa presenza corale e le figure soliste che via via si staccano per essere presto riassorbite. Quasi prefigurando la violenza di un Sacre stravinskiano.
Qui è anche resa più visibile quella particolare modalità creativa sviluppata da Sasha Waltz denominata contact improvisation, basata sul multiplo appoggiarsi e intrecciarsi l’uno all’altro dei corpi dei danzatori, impegnati nella sfida di occupare essi soli tutto quello spazio. Corpi che appaiono tentati da un moto verso l’alto, quasi una volontà di alzarsi in volo, ma poi non possono evitare di rotolare a terra. Un passo a due può far filtrare il bagliore della sensualità, le mani sul seno delle donne più che di un gesto erotico parlano di maternità. Proprio il lavoro sul corpo rappresenta del resto l’elemento di continuità di un percorso artistico che ha fatto della fluidità e del ciclico ritorno un principio vitale, come suggeriva il bellissimo Gezeiten di qualche anno fa. In un moto alternato fra passato e futuro, fra distruzione e ricostruzione, fra desiderio di conservare e bisogno di rinnovare. Non è certo un caso che la stilizzazione lasci il campo a un certo punto a un gesto non equivocabile. Uno di loro punta la mano piegata nel gesto della pistola e spara contro i compagni allineati in fila, che cadono uno a uno, come in una fucilazione. C’è una che si rifiuta a quella morte e le oppone una danza stremata prima di cadere a terra. Dove sono già distesi tutti gli altri, l’unico sopravvissuto si aggira muto in mezzo a tutti quei corpi. Ed è una immagine purtroppo di costante attualità.
Si può guardare indietro senza rabbia, dice forse la scelta di utilizzare nella parte finale, dopo tanta guerra, un brano sommesso e pacificante di Mozart, l’adagio di un quartetto per oboe – singolare per un’artista che di norma privilegia la musica contemporanea (ma c’era già stata un’eccezione, la musica romantica di Schubert per uno spettacolo non a caso di meditata leggerezza quale fu Impromptus). Sul palco ora è stato steso un tappeto candido. Su quella pagina bianca i danzatori vanno lasciando le tracce colorate dei loro passi, in una sorta di action painting. Non più così compatti. Qualcuno di loro è rimasto con i soli indumenti intimi, è comparsa qualche tunica bianca. Il gruppo si è spezzato in tante più piccole unità che replicano ciascuna per sé questi gesti ormai divenuti patrimonio comune. Un abbraccio finale sembra congelare figurativamente la pacificazione raggiunta. Ma il viatico che ci consegna Continu sta proprio in quel tappeto non più così candido che da ultimo viene sollevato di fronte agli spettatori. Come a dire che solo questo lascia dietro di sé il teatro, una traccia del suo passaggio. Tocca alla provvisoria comunità degli spettatori conservarne la memoria.