Alvis Hermanis o l’arte della memoria. Anche se, all’inizio, quel suo Revidents che ambientava la commedia di Gogol fra i fornelli di una sorta di trattoria familiare o di di mensa di paese, con cui si rivelò sulla scena internazionale il talento del giovane regista lettone, poteva essere letto in una chiave di grottesca critica sociale. Ecco infatti, da dietro un banco di cucina, spuntare un esercito di donnone dalle forme esagerate, tutte in grembiule bianco, che subito si davano un gran daffare a pulire, a sistemare le cose, a metter mano ai fornelli. E anche gli uomini che arrivano quasi di corsa, affannati, per buttarsi sui piatti col vassoio, hanno grandi pance posticce, poiché l’obesità è insieme manifestazione patologica e manifestazione sociale del loro essere funzionari dell’apparato statale. Segno di agiato benessere insomma.
Ma la deformazione grottesca non è caricaturale. Revidents, ovvero L’ispettore generale, non si ispira a Grosz ma pesca in una memoria collettiva prima ancora che personale. Bilanciando l’emozione con uno sguardo da entomologo. Quelli che racconta il regista sono infatti gli anni della sua infanzia. Gli anni settanta nati dal fracasso, qui da noi, gli anni delle lotte operaie e delle inquietudini giovanili, là nella lontana provincia sovietica sono invece quelli della stagnazione brezhneviana. Scavati dallo spettacolo con vena archeologica, a prima vista. Con un gusto quasi filologico per il dettaglio d’epoca. Tutto è esatto e autentico, come in un museo, dice Hermanis. La moda come la musica del periodo, l’immagine fisica stessa dei personaggi, ispirate al cinema e alla televisione dell’epoca. Anche l’odore dei luoghi in cui si mangiava, uguale dappertutto. Ma dei culti della memoria non c’è da fidarsi, si sa.
Lo stesso gusto quasi filologico per il dettaglio d’epoca e un naturalismo delabré lo troveremo nella ricostruzione dell’interno che odora di passato di Sonja, che Hermanis trae da un racconto di Tatjana Tolstaja. Il letto con le testate metalliche. L’armadio con lo specchio. Il tavolo rotondo con la tovaglia ricamata e il vasetto di fiori. La credenza e la cucina a legna. C’è proprio tutto. La pendola che scandisce il tempo e il vaso forato che sostituisce il rubinetto. E però con un ulteriore slittamento all’indietro nel tempo, in questa sorta di storia in minore dell’impero sovietico, visto dalle stanze di servizio. Che porta in un mondo lontano nello spazio e nel tempo, la Leningrado degli anni trenta del secolo scorso.
In questa stanza angusta e ingombra entrano due omoni con una calza da donna calata sul volto. Frugano dappertutto. Fanno andare il vecchio grammofono. Infilano le dita nella marmellata. Più che per rubare sembrano venuti in cerca di qualcosa. In cerca di una storia. E infatti quando spunta un album di fotografie e dall’armadio tirano fuori abiti femminili, quello all’apparenza più forte gerarchicamente si getta sull’altro, lo spoglia a forza, lo costringe a vestire un vestitino col fiocco e una parrucca con i bigodini. Come evocata da questa azione violenta, sotto la spinta delle parole con cui l’altro ora la presenta, la donna comincia a muoversi per la stanza, con un’aria attonita. Apparecchia la tavola, per due. Si siede da sola davanti alla zuppiera. Prepara una torta di cioccolato. Si mette al lavoro alla macchina da cucire.
Dunque Sonja è più propriamente una cerimonia sciamanica. Un lungo atto senza parole, che si dipana attraverso le azioni della donna evocata. A fianco scorre, come una didascalia, il racconto parallelo di quell’altro ospite della scena, ed è snodo drammaturgico fondamentale questa divaricazione. Invadente e privo di riguardi, l’uomo si getta sul letto e affonda la bocca nella torta. Sonja era stupida, ci dice. Sonja si vestiva in maniera impossibile. Sonja era un essere romantico, e anche se per poco è stata felice. Teneva un suo segreto e continuava a cucinare e pulire, lo sentiamo l’odore che viene dalla scena mentre taglia gli odori per il ripieno del pollo.
Sonja, lo spettacolo e la sua protagonista, progressivamente trascina lo spettatore dentro il suo mondo. Che si accorge allora, lo spettatore, che quel racconto, quella didascalia implacabile che pretenderebbe di restituirci con la storia l’immagine di una donna, in realtà non ci dice niente, nemmeno la sua stupidità. Non la sua vita interiore, al di là di ciò rivelano i suoi turbamenti. A cui si può arrivare solo per altre vie, forse con lo sguardo.
Prima però c’era stato Long life, che metteva in scena senza bisogno di parole la vecchiaia di cinque personaggi in un appartamento collettivo, che ritroveremo anni dopo trasformato in una sorta di comune hippie in The sound of silence. Un ambiente sviluppato tutto per il largo, poco profondo, senza divisioni interne se non quelle idealmente segnate dalle cinque porte allineate sul fondo, come se quelle stanze fossero accomunate da un’unica storia oltre che da un’unica geografia. Colmo fino all’inverosimile di cose. I letti da cui si sollevano i protagonisti, in un lento catarroso risveglio. Mobili su mobili. Apparecchi radio e televisori mal funzionanti. Ma non è questione di naturalistica imitazione della realtà, che i giovani corpi degli attori già contraddicono. La lentezza cui costringono i propri gesti, mentre si vestono o si dedicano ad attività quotidiane, porta il tempo della vita della vita dentro il teatro. O forse il contrario.
È invece Gorky la chiave scelta dall’artefice dello Jaunais Rigas Teātris, il Nuovo Teatro di Riga, per penetrare nel presente di un mondo occidentale che si è allargato a est fino ad arrivare ormai agli Urali, in By Gorky. Se in Revidents era l’olfatto il primo dei sensi coinvolti per lo spettatore, con l’odore intenso di soffritto che saliva dalla scena e si sentiva fin nelle ultime file del teatro, qui tutto riconduce allo sguardo, all’atto distante del vedere. Ecco infatti sulla scena una struttura che sembra alludere esplicitamente al reality show televisivo. Una casa di vetro, che rende trasparente la vita dei suoi abitanti, che vivono una ambigua quotidianità sotto l’occhio indiscreto di una videocamera. Ma all’azione che si svolge all’interno della casa è sottratto il sonoro, di quella vita ci giunge solo un attutito rumore di fondo che si fonde col basso continuo di un tema musicale, accrescendo la sensazione di un nascosto spiare. A turno escono da una porta che si apre verso l’esterno, dov’è sistemata una panchina e qualche sedia. Dialogano fra loro con le parole dell’autore dei Bassifondi, raccontano le loro ossessioni, trasformandosi essi stessi in personaggi giacché poi tutti si presentano con il proprio nome. In un continuo gioco di sponda fra verità e finzione che è il tema di By Gorky.
Chi sono infatti quelli che ci si mostrano qui esposti in una dubbia intimità? Attori certo. Ma attori che giocano un ruolo, in bilico con quell’altro gioco scenico che corrisponde al presente della scena, al qui e ora dello spettacolo. E a confondere ancor di più le carte, c’è pure la contrapposizione delle immagini filmate che vanno in parallelo sui due lati dello schermo che sovrasta la struttura vetrata. Quelle delle prove, congelate nella memoria magnetica, che di tanto in tanto fanno ascoltare squarci di confessioni degli attori. E quelle in presa diretta che indugiano su particolari dei corpi, amplificano i dettagli delle azioni. Dove non succede nulla, come Cechov insegna. Non c’è sviluppo o vicenda. Piuttosto un senso di attesa, uno struggimento per la vita che scorre fra le dita. Chiacchierano. Ballano. Preparano da mangiare. Si abbandonano a giochi infantili. Praticano vigorosi massaggi in un crescendo mahleriano.
Allora ti accorgi che la verità del teatro fa piazza pulita di qualsiasi illusoria reality, che la finzione che costruiscono è densa di una verità irraggiungibile da un’illusione di realtà. Perché questo gruppo di donne e uomini che ha oltrepassato la linea d’ombra della maturità, e sta lì su quella soglia incerto sulla direzione da prendere, lo conosciamo bene. Ci siamo passati per queste feste allegre e tristi che non vogliono finire, a notte, quando il tasso alcolico ha liberato la mente e un po’ i corpi. E quando loro intonano Killing me softly, ormai diventato il tema conduttore dello spettacolo, davvero è troppo. La commozione rischia di travolgere.
Ed eccoci allora di nuovo nello spazio stretto dove andava in scena Long life. Che ora ci appare più ordinato ma anche più consumato dal tempo. Pitture scolorite. Brandelli di antiche tappezzerie. Tubazioni che corrono a vista lungo le pareti. La cucina economica da un lato e una vasca di ghisa all’altro capo. Un tavolo da cucina, vecchi apparecchi radiofonici, sedie e sgabelli, un divanetto. Molti libri, in pila per terra o infilati in cassette da frutta. Barattoli di vetro grandi e piccoli, vuoti.
È uno spettacolo molto diverso da quello che sembra The sound of silence. Non è il “come eravamo” cui potrebbe indurre una lettura frettolosa, o tanto meno un nostalgico “come non siamo mai stati”, nato dal fatto che la giovinezza del regista lettone si è svolta in altri climi culturali e sociali. Bisogna insomma andare al di là dello specchio, dietro l’immagine fotografica d’epoca distesa sui pannelli che sostituiscono il sipario, per calarsi nell’arte della memoria messa in atto da Hermanis.
Dietro, c’è l’ambiente consumato che ormai ci pare familiare. Due ragazze vi penetrano di soppiatto, ridendo piano, in una metodica esplorazione dello spazio che consente anche a noi, gli ultimi arrivati, di prendere confidenza con quel luogo. Vestite alla moda di anni ormai lontani, pescati forse in qualche bottega vintage. Si divertono ad avviare giradischi e registratori a nastro, da cui escono poche note, sporche ma ben riconoscibili, quelle della canzone del titolo. Hello darkness, my old friend.
I due temi su cui è costruito lo spettacolo si presentano subito, insieme. Le canzoni di Simon and Garfunkel e quel controverso momento storico sul finire degli anni sessanta, arrivato al di là di un ancora solido sipario di ferro (non scordiamo la solitudine di Praga, nell’ultima prova di forza dell’armata rossa) forse come un’eco di anarchica libertà, risonante da cinema e musica, fra la swinging London e Hollywood. Ecco infatti che la scena si popola un poco alla volta di tanti personaggi che sembrano usciti a tutta prima da un album di famiglia, ma che già obbligano a fare i conti con l’infedeltà del ricordo, con gli slittamenti temporali da un decennio all’altro. Giovanottoni dai lunghi capelli e baffi spioventi. Giovani donne con torri di capelli come oggi osa Amy Winehouse. Ragazzine in abitini lisci di un color celeste, ovviamente.
Provano impacciate scene di seduzione. Recitano baci e abbracci davanti a una cinepresa, per scoprire magari di provarci gusto. Giocano una roulette erotica che toglie un po’ dell’imbarazzo di provarci anche a quella più cicciotta. Si attaccano al filo del telefono e tirano, tirano per richiamare a sé la persona che sta all’altro capo. Fanno e disfanno letti in cui finiscono per dormire quasi sempre soli. E per ogni momento c’è una canzone, mentre una sveglia suona fastidiosa Wednesday morning, 3.am. People talking without speaking. Non parlano infatti, ma le parole ci sono, eccome. Quelle dei libri in cui tutti a tratti si immergono, richiamando un silenzio di cui davvero si può sentire il suono, che nessuno osa disturbare. Quelle delle canzoni che escono da tutte le parti, dalle pagine dei libri e dai barattoli, aperti e richiusi. Colano dalle tubazioni bucate e si raccolgono nei bicchieri per un brindisi. Volano per aria con una piuma sospinta dal fiato degli attori, che quando cade a terra cessa anche la musica.
Per tre ore e mezzo resteremo con loro, senza un momento di stanchezza. Non più spettatori ormai. (Quando abbiamo smesso di esserlo? È successo, certo. A un certo punto siamo diventati parte della loro realtà. Quella costruita su una perdita di memoria a cui non ci si vuole arrendere.). Come resistere del resto alla scena in cui un disinvolto fotografo replica con un po’ meno glamour un paio dei momenti memorabili di Blow up, e pazienza se non ci sono Vanessa Redgrave né Jane Birkin. Volano per aria i collant colorati mentre crolla il fondale di carta dell’improvvisato studio fotografico, e però intanto in un’altra stanza qualcuna si aggrappa a un telefono che non suona o un numero che non si ha il coraggio di fare. E ci sarà anche l’incursione in scena della tribu Flower power di Hollywood party, mentre però la musica ci avverte che la festa forse è finita. Bye bye, love. Bye bye, happiness. Hello, loneliness. I think I’m gonna cry.
The sound of silence non è uno spettacolo in costume, è semmai uno spettacolo in maschera. Nasconde cioè dietro la maschera d’epoca, un suo nucleo segreto tanto più doloroso in quanto ci vien servito con divertimento. Che tocca a ogni spettatore decifrare per sé, non ci sono spiegazioni pronte per ogni uso. Quel che visibilmente osserviamo è che in quel luogo all’apparenza fissato in un momento immaginario, in realtà è scorso il tempo, e questo scorrere del tempo, che però non si fa racconto, è l’oggetto del teatro. Le ragazze a un certo punto si sono ritrovate tutte col pancione, ed è già il tempo dei peluche e dei musini davanti alla carrozzina. E allora anche la replica di quel che è già passato muta di segno e colore.
È questo quel che troviamo al di là dello specchio? Questa entropia che non lascia scampo, a cui si può soltanto cedere, accettando di sporcarsi la faccia e riempirsi la bocca di panna come già faceva il persecutore di Sonja. O sarà invece questione di mettersi in ascolto, di non lasciarsi sopraffare dal rumore di fondo, in un continuo rabdomantico drizzare antenne verso il cielo e inventarsi strumenti di ricezione che è gesto politico, naturalmente. Alla ricerca di un suono capace di vincere per un attimo il gonfiarsi del silenzio come un cancro. Se l’ultimo gioco si conclude con un corpo senza vita, che lascia tutti impietriti. A meno di non girarsi dall’altra parte e addormentarsi di nuovo, come fa qualcuno, pensando forse che tutta la vita è sogno. E il teatro è forse un sogno dentro il sogno.