Non ci si era poi sbagliati tanto, parecchio tempo fa, quando si era avvicinato il teatro di Natalia Ginzburg al cinema del primo Nanni Moretti. Per quell’ambiente borghese in cui pescavano entrambi, quello di una classe intellettuale diffusa senza “aura” oltre che senza potere. Scrittori mancati o ancora illusi sul romanzo che non finiscono di scrivere. Disoccupati per vocazione, incapaci di trovare un lavoro che “gli si adatti”, nell’inconscio bisogno di rifiutare l’impegno in un mondo sentito estraneo. Sempre con problemi di soldi che non ci sono. Sempre “in crisi”. Così si osservava allora. Erano gli anni di Caro diario o poco prima; Michele Apicella non c’era più ma ci si poteva sentire “splendidi quarantenni” e rivendicare con qualche ragione “Voi gridavate cose orrende e siete imbruttiti, noi gridavamo cose giuste”.
Certo si sentivano i dieci anni di distanza fra l’avvento teatrale della scrittrice, con il fortunatissimo Ti ho sposato per allegria passato da Adriana Asti sulla scena a Monica Vitti sullo schermo, e l’altrettanto sorprendente Io sono un autarchico di Moretti. Non era soltanto un salto generazionale ma un mondo intero che era cambiato intorno a loro, a quei personaggi. Se si voleva trovare un’immagine diversa per il mutamento storico in atto, rispetto alla scomparsa delle lucciole che aveva colpito Pasolini, veniva da pensare alla scomparsa delle “donne di servizio”, così presenti nel teatro di Natalia Ginzburg ma ormai un ricordo del passato per i coetanei filmici di Moretti. Basta pensare alla Vittoria di Ti ho sposato per allegria che non tornava a casa all’uscita dal parrucchiere, quando pioveva, per non sciupare l’ondulazione (era Maria Grazia Buccella nel film di Luciano Salce) o qui, in Fragola e panna, alla “serva” che rivendica con puntiglio tale suo ruolo e Daria Deflorian ne fa una sorta di protagonista parallela. Ne riparleremo.
Non stupisce insomma se per il debutto nella regia teatrale Moretti si è rivolto a Natalia Ginzburg, accostando due testi minori rispetto a quelli che maggiormente rimangono nella memoria. Diari d’amore ha intitolato lo spettacolo che ha inaugurato al Carignano la stagione dello Stabile di Torino. Titolo ambiguo, sdrucciolevole. Che si ribalta continuamente mano a mano che si va avanti. Diari non d’amore, si vorrebbe piuttosto dire. Ma non nel senso inteso da Viktor Šklovskij di una passione che non può essere pronunciata e deve quindi trovare un correlativo. Qui il non amore è proprio assenza, noia, aridità. Così pare, almeno. E non è casuale il rispecchiamento fra le due brevi commedie.
Dialogo sta non casualmente sulla soglia fra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, ed è delle due commedie quella più compatta e risolta. Era piaciuta a Luca Coppola; aveva voluto metterla in scena, in Sardegna, il giovane intellettuale ucciso su una spiaggia di Sicilia insieme al suo compagno Gianluca Prati. Lo ricordava la scrittrice nella nota introduttiva del secondo volume del suo teatro pubblicato da Einaudi. Da subito aveva rassomigliato l’inspiegabile assassinio a quello di Pasolini sul litorale di Ostia. Ed è ferita che a tanta distanza di tempo non si rimargina.
Qui ci sono due personaggi in scena. Marito e moglie, si capisce – sono Valerio Binasco e Alessia Giuliani. Ci sono anche una bambina che piange, una cameriera che si chiama Concetta e sta a dieta perché pesa ottanta chili, ma non si vedono. Ci sono solo loro due, ancora a letto in pigiama, e del resto la mattina è piovosa e non hanno granché da fare. Lui ci tiene a essere considerato uno scrittore anche se non ha pubblicato nulla; lei forse ha trovato un lavoretto, un’inchiesta per la televisione sui vecchi nei ricoveri, gliel’ha procurato il migliore amico di lui – a lui ha promesso la pubblicazione del suo romanzo da Vallecchi se mai riuscirà a portarlo a termine. Il letto occupa tutta la parte praticabile della scena disegnata da Sergio Tramonti, incastonato fra due quinte traslucide e la finestra di spalle con le persiane ancora socchiuse. Lei ha qualcosa da dirgli ma non riesce a tirarlo fuori. C’è sempre qualcos’altro su cui battibeccare, e a parte il sapore un po’ amarognolo (i soldi che mancano, la brutta casa in cui vivono…) i dialoghi serrati potrebbero ricondurre alla commedia sofisticata degli anni d’oro del cinema hollywoodiano.
Alla fine lei riesce a dirla la sua faticata verità, a luce spenta. Che con quell’amico così caro di lui ha una relazione, che pensano di andare a vivere insieme. In campagna. C’è giusto il tempo per raccontarla tutta, cioè per far crollare “una vita che stava in piedi”, che suonano alla porta. C’è una lettera dell’uomo, dice che sta partendo per la Spagna. Con la moglie, non le ha detto niente, non si sente di lasciarla. Allora? Allora è finito tutto. È finita anche la possibilità del dramma. Resta solo una sommessa disperazione, molto cechoviana in fondo. E la consapevolezza che domani sarà come oggi, l’unica cosa che si può fare è ritrovare un gesto di affetto. Perché forse l’amore è proprio questo, questo accettare di invecchiare insieme.
Allora soprattutto contano le parole. “Le parole sono importati!” ammoniva Jean-Marie Straub mentre insisteva sulla lunghezza di una pausa. Gli sarebbe piaciuto questo Dialogo. Nanni Moretti ha affrontato questa sua prima prova registica con una programmatica fedeltà al testo, al ritmo anche sonoro delle parole. Che l’interprete non ha il diritto di cambiare a suo piacimento (chi ricorda Il sol dell’avvenire ne ritrova lì una concreta esemplificazione).
Fragola e panna risale al 1966, viene cioè a ridosso del successo di Ti ho sposato per allegria e a leggerla un po’ si capisce perché nessuno fin qui abbia voluto portarla su una scena. Ma si capisce anche perché Moretti l’abbia scelta per il suo dittico – be’ no, non ci si vuole ergere a interpreti del pensiero morettiano, si vuol dire soltanto che ci paiono evidenti i fili tematici che legano le due commedie. Uguale è la situazione di partenza. C’è una coppia che convive senza più amarsi da un bel numero di anni (sono sempre Binasco e Alessia Giuliani). L’uomo un po’ per gioco o per noia, soprattutto per una sorta di compulsiva abitudine, ha corteggiato una donna molto più giovane, poco più di una ragazzina anche se già moglie e madre insoddisfatta. Ma se ne è stancato in fretta. Come altre volte, viene da pensare. La ragazza è scappata dalla finestra di casa e ora si presenta con una valigia gonfia delle sue robe nella villa dell’agiata famiglia borghese, a connotarla bastano due grandi e emblematici divani Chesterfield che si fronteggiano ai lati della porta che tiene fuori la neve e le vite degli altri.
L’uomo però qui è un po’ una marionetta, una figura stereotipata. Un uomo da niente, lo definisce la moglie. Tutto il peso del gioco scenico grava sulle parti femminili, come del resto vuole la commedia sofisticata. In Fragola e panna si gioca una partita a quattro che ha per posta come sbarazzarsi dell’intrusa, con il suo non so dove andare, allora dove vado, ma mica si può tenere in casa l’amante del marito (oltre alle due interpreti già citate ci sono Arianna Pozzoli e Giorgia Senesi, la ragazza in fuga e la sorella pragmatica della protagonista). Cioè una partita in cui ci si rimpalla solitudine, incoscienza, senso di colpa, cinismo, gelosia. E dell’amore, ci si chiede, che fu? Sicché alla fine, che non c’è, si parteggia per forza per la donna di servizio che si chiama Tosca e in quella casa non si trova, se ne vuole andare, però intanto distribuisce empatia e piatti da mangiare.
© Gianni Manzella