Un vento insistente soffia sulla scena di Addio fantasmi. Fa ondeggiare continuamente le tende leggere che piovono pieghettate dall’alto e racchiudono uno spazio neutro, vuoto ma non chiuso all’esterno. Ché anzi quelle pareti fluttuanti si attraversano con facilità, sono permeabili alle voci che provengono dall’esterno, si può anche rispondergli restando di qua. All’interno ci stanno solo un paio di poltroncine, dove sedersi un po’ in punta, con l’atteggiamento guardingo di chi ha imparato a stare all’erta, sempre sulla difensiva; oppurse mettersi comode, per mascherare un ancora più profondo malessere. In mezzo, quasi a segnare un confine o una terra di nessuno, un tavolino con un vecchio apparecchio telefonico sembra retrodatare l’azione o forse significare che indietro è rimasto il tempo di questa casa, e non si riesce più a sincronizzarlo. Una casa piena di infelicità, dice in un altro momento la figlia.
È un ritorno a casa lo spettacolo che Luigi De Angelis e Chiara Lagani, ovvero Fanny & Alexander, lui regista e lei autrice della partitura drammaturgica, hanno tratto dal romanzo di Nadia Terranova pubblicato qualche anno fa da Einaudi. Ma appena pronunciate, queste due parole si sgretolano, perdono concretezza, diventano esse pure fantasmi. La casa che per la madre è ancora «nostra», la casa di una famiglia che non esiste più da tempo, è stata ripudiata dalla figlia che è andata a star di casa a Roma. Dove una famiglia ce l’ha, e un marito che ogni tanto si fa vivo per telefono. E il ritorno non è tale, non le interessa proprio il motivo per cui la madre l’ha chiamata a Messina, scegliere cosa salvare fra le sue cose prima che la casa sia venduta. A parte una misteriosa scatola rossa, potrebbe buttare via tutto. E infatti la sua, più che un ritorno nella casa che non c’è più, è una fuga da quella che si è fatta. Forse perché Ida è una di quelle persone che, come diceva Elsa Morante, hanno due sangui nelle vene e quando sono qui vorrebbereo essere là e quando sono là vorrebbero essere qui. E questo un po’ ce la fa amare.
Ed eccole lì una di fronte all’altra. La madre elegante nel suo abito scuro, il caschetto di capelli argentei sempre ordinato; mentre lei, Ida, che poi sarebbe la voce narrante nel romanzo, fa ancora un po’ la ragazza, un po’ disordinata e come viene, accovacciata in maniera scomposta sulla poltroncina con i lembi del vestito leggero che non stanno mai a posto. In scena ci sono due attrici impeccabili. Una grande Anna Bonaiuto, che vela il dolore dietro la maschera della concretezza, e Valentina Cervi che porta con leggerezza un nome impegnativo e si mette con discrezione alla prova del palcoscenico (nello specifico quello del Teatro Alighieri per il Ravenna festival), dopo molto cinema e televisione. Se c’è un ritorno non fantasmatico, vien da dire, è a un teatro che fa dell’arte dell’attore il proprio cardine e qualche disagio magari lo trasmette, qualche nota che si insinua stridente nel pensiero, un sentimento di diversità, in mezzo al troppo teatro del consenso che ci affligge da ogni lato.
Insomma, se immediatamente si era potuto pensare al bellissimo Terremoto con madre e figlia di parecchie stagioni fa, complice la presenza imponente di Anna Bonaiuto, alla prova ne misuriamo tutta la distanza. Se là, nel primo lavoro teatrale di Fabrizia Ramondino, era tutto un tenace andar dietro al filo della memoria, e la casa in cui si rifletteva il sentimento della vita era quella lesionata dal terremoto che madre e figlia avevano dovuto lasciare, non la casa «orribile» in cui ora vivevano accampate – qui la memoria è sorella crudele, terreno di scontro sanguinoso. Te lo ricordi? Anche i ricordi non combaciano, nemmeno quello del film visto insieme. E con fatica ma inesorabilmente viene fuori il trauma originario, quel non detto che aleggiava fin dall’inizio. Il padre una mattina se n’è andato, non è più tornato, e ora chissà dov’è, chissà se è ancora vivo. Anche nei sogni continua a sparire. Vi amavate? osa finalmente chiedere la figlia. Ferita d’amore non si sana. E allo scontro bisogna arrivarci.
Dopo ci si può concedere il tentativo di un abbraccio, magari condito con un piatto di rigatoni con le melanzane. E dire addio così alle parole fantasma, spazzate via da un vento leggero. Se Terremoto con madre e figlia era la storia di un distacco lacerante tra madre e figlia, ma anche il distacco dalla giovinezza per la madre che ancora si sentiva figlia, Addio fantasmi ci dice di un possibile pacificarsi in quel qui e là fra le zone della mente a cui possiamo dare il nome di Messina e Roma.
© Gianni Manzella