Le nuvole che passano sulla parete grigia annunciano tempesta ma lì davanti è festa. Un party travolgente, stelle filanti e eleganti abiti da sera, qualcuna sfoggia anche una pelliccia, mentre la musica impazza. Sarà forse capodanno. Quanto basta perché il protagonista possa staccarsi fisicamente da quella festosa coralità per dare sfogo alla propria alterità. Ecco l’inverno del nostro scontento, sussurra Riccardo, rivolto non a quelli che continuano a brindare ma a noi che siamo lì di fronte a lui, davanti al circolare prolungamento della scena che si affaccia sulla platea dello Strehler, trasformato in un teatro elisabettiano. E il celebre monologo si ripropone poi anche con le parole di Shakespeare, a replicare quelle riscritte dal “dramaturg” Marius von Mayenburg cui si deve l’adattamento di questo bellissimo Richard III di Thomas Ostermeier. Now is the winter of our discontent.
È il momento fondativo della tragedia. Di cui all’inizio ci viene fornito anche una summa del contesto storico, la guerra delle due rose di Lancaster e York, perché poi non è facile districarsi fra tutti quegli Edoardi ed Enrichi e tutte quelle regine in lotta per un potere di cui a turno sono vittime. Non ce ne sarà bisogno giacché si viene presto trascinati dentro il gioco scenico del protagonista e il resto diventa contorno.
Indossa una maglietta bianca che ne evidenzia la deformità, così come un enorme piedone da clown rende più buffo il suo incedere sbilenco. Non c’è da temere che Ostermeier riproponga l’immagine stereotipata del cattivo. Niente di tutto ciò che da Edmund Kean a Laurence Olivier si è stratificato sul personaggio, eredità romantica dopo tutto. Anche la gobba è una esibita protesi, come quelle che maneggiava Carmelo Bene circondato dalle sue donne. Semmai il regista, lungi da un impossibile intento filologico, è capace però di ritrovare di Shakespeare tutta la vena di teatro popolare. Il correlativo contemporaneo di quel che poteva essere il Globe londinese.
Giunto alla soglia dei cinquant’anni il ragazzone di Soltau, Bassa Sassonia, sembra divertirsi ancora molto con il teatro e certamente sa divertire noi suoi affezionati spettatori. A cui offre anche qualche occasione di affondo nella memoria. Il fragore della batteria suonata da un percussionista, su un angolo della scena, richiama l’accompagnamento furibondo di Disco pigs, uno dei primi lavori che ci fecero conoscere il regista, vent’anni fa. Erano ancora i tempi della Baracke, l’ensemble formato all’interno del Deutches Theater berlinese. Sarebbe di li a poco approdato alla Schaubühne che ancora dirige.
Riccardo allora, che all’inizio è solo il fratello del re in carica. Conosce bene l’arte della dissimulazione, Riccardo, e la converte facilmente in una mimetica adesione al sentimento di chi gli sta di fronte. Per ciascuno ha in serbo un bonus, la promessa di un beneficio futuro, la solleticazione di antichi privilegi di casta. Quando ritiene che non gli siano più utili, li toglie di mezzo senza rimorsi. Lo vediamo bene all’opera con la luttuosa lady Anne che giunge in scena al seguito della bara del marito che lui le ha ucciso. Non nega il suo delitto ma l’attribuisce alla passione per lei, si offre nudo alla spada che lui stesso le porge. Ed è subito un bacio rubato.
Detto altrimenti, è un attore. Recita per noi con deliberato istrionismo. Qui ritroviamo Lars Eidinger che già era stato uno straordinario Amleto, in un altro cardinale spettacolo di Ostermeier. (Ma gli attori sono tutti bravissimi come ci si può aspettare dal teatro berlinese). Se quello era un attore riluttante, un bad boy animato da astratti furori che urlava e strepitava e si rotolava nella terra nell’incapacità di venire a capo del ruolo che gli era assegnato, lui vuole sedurre il suo pubblico. Consapevole delle sue arti. Si affaccia alla ribalta per dialogare con gli spettatori. Si spoglia degli abiti per condividere la sua deformità. Per rivelarci i suoi segreti pensieri si attacca al microfono luminoso che cala dall’alto, appeso a una fune con cui a volte si fa dondolare. Trasforma in una cerimonia buffonesca anche l’esibizione di un improvviso zelo religioso.
Ma la buffoneria in questo teatro è un mezzo, una trappola per topi direbbe Amleto. Metti l’uccisione di Clarence da parte di due sicari tremebondi, due fool che non sanno come portare a termine l’impresa e se ne rimpallano la necessità. Ma al momento dell’atto la comica slapstick si muta a vista in una scena di macelleria. È un rovesciamento improvviso e spiazzante. Dietro la clownerie emerge la crudeltà, nel senso artaudiano del termine, che naturalmente era già lì ad aspettarci. E ancora l’aver affidato a due marionette la parte dei principi bambini destinati alla torre di Londra, immagine all’apparenza innocente, costringe a sovrapporvi la visione di altri corpi che non riusciamo a scacciare, come alla lunga non riusciamo a sottrarci al disagio che provoca la fascinazione del personaggio. In cui si specchia davvero una corruzione della politica che ci è familiare. Salvo che almeno a teatro l’ascesa si porta dentro la rovina.
Sulla parete grigia, percorsa da una ragnatela di scale e passerelle metalliche, è scoppiata la tempesta. Volano stormi di uccelli scuri. Domani nella battaglia pensa a me, dicono le ombre che nel sonno vengono a visitare Riccardo. Gli uccisi che si è lasciato per strada. Al sogno è consegnata la troppo celebre battuta – il mio regno per un cavallo. Sicché anche la battaglia è un duello solitario contro i fantasmi che si porta dentro, un vano menar fendenti all’aria. Finché sconfitto finirà appeso a testa in giù, come qualche volta capita a chi troppo è andato in là nel desiderio del potere.