• I sogni inquieti di Goliarda Sapienza. Martone mette in scena Il filo di mezzogiorno

    C’è un sipario ma non chiude la scena allo sguardo dello spettatore. Non è la provvisoria quarta parete da squarciare per penetrare di là, nel luogo dell’azione, ma diaframma che separa due spazi, o forse li coniuga in un labirinto di tempo. Davanti lo spazio buio della mente; dietro lo spazio del racconto, della narrazione, di una supposta realtà, vai a sapere se esiste una realtà. Seduta lì davanti su una panchetta, a un passo dagli spettatori, a piedi scalzi, la donna dice di sé, venuta a Roma sedicenne dalla Sicilia per entrare all’Accademia d’arte drammatica fondata qualche anno prima da Silvio D’Amico. Per fare l’attrice. E subito costretta a fare i conti con la norma. Non l’ha perduta, ancora adesso che si racconta, la cadenza siciliana, quelle vocali spalancate che pure ci sembrano così dolci da sentire. Che non fossero gradite in bocca a un’attrice di quegli anni non stupisce, siamo negli anni del declinante fascismo e il siciliano Pirandello, che pure con la lingua dell’isola qualcosa aveva immaginato, aveva lasciato in eredità al teatro la lingua di “codesto cappellino”. Insomma la borsa di studio gliel’avevano concessa alla fine ma con la condizionale, tre mesi per disfarsi di quel suo accento e lei giù a esercitarsi. Anni difficili comunque per la figlia di un avvocato socialista e di una sindacalista lombarda che non hanno nemmeno voluto che frequentasse le scuole fasciste. Anni di guerra e di povertà. Lui inevitabilmente finirà in carcere, lei costretta a sopravvivere insieme alla madre proprio con quella borsa di studio.

    Il racconto è quello che di sé ha dato Goliarda Sapienza ne Il filo di mezzogiorno che Ippolita di Majo ha adattato per la scena nello spettacolo molto bello costruito da Mario Martone. Figura rimasta a lungo ai margini della cultura italiana, Goliarda Sapienza. Troppo drop out, difficile da incasellare, forse troppo brava. Come la protagonista de L’arte della gioia, il suo capolavoro. Non per caso ci sono voluti più di trent’anni perché qualcuno lo pubblicasse per intero. Lei intanto era morta, nel 1996. Le immagini giovanili rivelano un volto di una bellezza forte, dai tratti marcati.

    Quando il sipario si apre, ci si trova di là, su una scena divisa in due, cioè in due parti che si rispecchiano perfettamente uguali. Due divani uguali e accanto due poltroncine uguali, uguali le due ribaltine contro le pareti laterali… Persino i libri sugli scaffali delle librerie sul fondo sono gli stessi. All’origine del libro c’è un altro imprigionamento. Un tentato suicidio, chissà se davvero tale, l’ha portata all’interno una clinica psichiatrica. Dove spensieratamente si pratica quella forma di tortura nota come elettroshock, con il risultato di averle fatto perdere del tutto la memoria di sé, del suo passato. Citto, il suo compagno, è riuscito a tirarla fuori di là e ora accanto a lei c’è un uomo, un medico, incaricato di tirarla fuori da quest’altra prigionia, l’oscurità in cui è precipitata. A suo modo cerca di inocularle la “maladie de la vie”, come verrebbe da dire rovesciando la formula di Marguerite Duras (è solo una suggestione, è chiaro, dettata forse dal fatto che lui si presenta da lei tutti i giorni alla stessa ora, il mezzogiorno del titolo, anche qui però c’è di mezzo l’incontro ineguale fra un uomo e una donna la cui possibilità si perde alle soglie del sentimento).

    A un primo livello di lettura Il filo di mezzogiorno, inteso come lo spettacolo visto al Teatro India, a Roma, è la cronaca di una lunga seduta psicanalitica che si sviluppa per diversi anni. Il caso di Goliarda, pensando a Freud. Lui seduto nella poltroncina prende diligentemente appunti. Si compiace per i progressi di lei, molto bene molto bene, quando comincia a riconoscere i colori. Lei non si fida mica tanto, si rivolta, mette in atto una sorta di resistenza passiva, non capisce chi sia quell’uomo che le è comparso vicino e quando realizza che si tratta di uno strizzacervelli, così l’apostrofa, le cose non vanno meglio. Lamenta che lui la chiami “signora”, lo trova offensivo ma si percepisce che sta guadagnando terreno. Poi arriva il tempo dei sogni e la relativa interpretazione si incanala su una strada all’apparenza molto classica, il divano che si trasforma nel prevedibile lettino e tutto quel che ciascuno è libero di pensare al riguardo. Il luogo coincide con il tempo, un tempo popolato di fantasmi che emergono più o meno volentieri dalla memoria: il padre e la madre, la sorella e le amiche (e chi ci tiene può facilmente dare un nome a queste presenze ma francamente se ne può fare a meno, non sembra utile buttarla sulla cronaca). Un luogo e un tempo dove i vivi e i morti convivono, vengono in mente le Sorelle Macaluso di Emma Dante, richiamate dalla protagonista Donatella Finocchiaro.

    Qualcosa fa attrito però. I pezzi non combaciano così facilmente. Un brusco rumore dice di qualcosa che si spezza. Anche le due metà della scena disegnata da Carmine Guarino prendono a spostarsi, una slitta verso il fondo, l’altra si solleva dal suo piano. Il fatto è che la spiegazione a cui tende per statuto la vulgata psicoanalitica sta proprio al capo opposto rispetto a un teatro che dell’interpretazione non sa che farsene e mira a mantenersi libero da spiegazioni, nel momento in cui racconta una storia. E se proprio ci si deve muovere in quei dintorni, pare allora di essere più vicini alla Traumnovelle, il “doppio sogno” di Schnitzler che turba l’equilibrio della coppia borghese, piuttosto che alla lezione freudiana sul caso di Dora. Anche qui l’equilibrio faticosamente cercato nel percorso terapeutico va in pezzi e a farne le spese è l’uomo, travolto dall’inevitabile transfert e costretto dal rovesciamento dei ruoli a interrompere un’analisi da cui sta uscendo a pezzi, senza più certezze su di sé.

    Si diceva di Donatella Finocchiaro, mai forse così brava a teatro, a memoria. Il filo di commozione che le si legge negli occhi in altre occasioni potrebbe suscitare una legittima diffidenza (ancora l’immedesimazione, ma via!) e invece no, stiamo proprio da un’altra parte – ma anche Roberto De Francesco è bravissimo nel tratteggiare la sicurezza dell’uomo che va in frantumi e non basta la sua scienza a rimettere insieme i pezzi. Quando esce a prendere gli applausi, l’attrice stringe a sé il libro. Noi, si esce dal teatro con tante domande e poche certezze, se non che il teatro ha ricominciato a marciare e a regalarci sogni inquieti.

     

    © Gianni Manzella

     

     

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